UNIONE EUROPEA VERSO IL BARATRO: GRECIA IN RIVOLTA, VERTICI EUROPEI ALLA DERIVA, BREXIT IN BILICO, TERRORISMO ISLAMISTA DIROMPENTE

MAR-Grecia-rivoltaMentre in Grecia la rivolta dei coltivatori blocca il paese in fiamme, tornato in recessione tra nuove voci di uscita dall’Euro, dopo i diversi incontri di vertice dei Capi di Stato e di Governo che si sono succeduti, tra Febbraio e Marzo, a Bruxelles, la maratona negoziale si è conclusa con il solito teatrino di un’Europa invertebrata e senz’anima, priva di un progetto comune condiviso, un’accozzaglia di Paesi che perseguono soltanto il proprio tornaconto egoistico, tra il frastuono delle stragi terroristiche di Parigi e Bruxelles.

I tanti problemi portati sul tavolo dei vertici stanno finendo per travolgere quello che resta dell’ipocrita finzione che è l’Unione Europea: il nodo delle banche e soprattutto le condizioni speciali che Londra pretende per rimanere nell’Unione, referendum permettendo, l’esodo biblico dei migranti e non ultimo il fenomeno sempre più devastante del terrorismo islamista.

Quella che ormai appare a tutti come una invasione epocale dei migranti è stata rimessa ai ricatti di Erdogan, il “nuovo sultano turco”, che crea appositamente il fenomeno dei profughi – oltre a foraggiare il fenomeno terroristico in sodalizio con l’Isis-Daesh – per poi lanciarli nel ventre molle di questa Europa acefala allo scopo di chiedere in cambio enormi stanziamenti dall’UE per non fare nulla.

Altro nodo rinviato fra mille polemiche, ma non risolto, è quello delle banche, con una Germania che, come al solito, non vuole sentir parlare di garanzie condivise fra gli Stati se non alle condizioni che le convengono e chiede un meccanismo che serve solo a distruggere le banche italiane.

L’unico problema discusso in maniera quasi completa è stato quello delle proposte sparate da Cameron per scongiurare l’uscita dell’Inghilterra dalla UE, la Brexit, che sarebbe una bomba per l’economia mondiale ma che è sempre più fortemente voluta dagli inglesi della periferia e sarà votata nel referendum di questo 23 Giugno.

Cameron, nonostante le furiose opposizioni di Francia e Italia per i privilegi pretesi dalle banche della City e dei Paesi dell’Est (in difesa dei propri lavoratori) ha apparentemente ottenuto un trattamento di favore per la City, una marcata autonomia da Bruxelles sia in campo politico che commerciale, affermando per la prima volta che l’Unione europea ha due valute monetarie, l’Euro e la Sterlina. La Gran Bretagna non farà mai parte del superstato europeo né di un superesercito europeo, inoltre potrà attivare per sette anni il cosiddetto “freno d’emergenza” per l’accesso dei benefici al welfare, la limitazione si applicherà a tutti i lavoratori nuovi arrivati in UK per un periodo di 7 anni, l’accesso ai benefici sarà inoltre graduato nell’arco di quattro anni con una drastica limitazione dell’accesso al welfare inglese dei lavoratori europei che vi si recano creando così una categoria di lavoratori declassificati e in pratica senza tutele. Londra ha infine strappato una concessione anche sul fronte migranti: i nuovi entrati in UK dovranno attendere quattro anni per usufruire pienamente dei servizi forniti dallo Stato, ed ancora, al momento della prossima revisione dei Trattati l’UK sarà esentata dal concetto di “ever closer Union” (“Unione sempre più stretta” il principio su cui si fonda l’Europa sin dal Trattato di Roma del 1957), ma comunque quest’accordo tra UE e Gran Bretagna entrerà in vigore solo a condizione che il referendum avrà confermato la volontà della UK di restare nella UE.

Ma nonostante questi successi, il cammino di David Cameron si complica in ragione di una Brexit sempre più appoggiata dagli euroscettici del partito conservatore del calibro del sindaco di Londra Boris Johnson compagno di Università e di partito di Cameron che ormai attacca frontalmente l’UE di Bruxelles, forse per una faida interna ai Tory e si è apertamente schierato in favore della Brexit. Così come il candidato Tory alla successione di Johnson, Zac Goldsmith, che ha annunciato a sua volta che farà parte dello schieramento in favore dell’uscita dall’UE e ha affermato che il Regno Unito deve lasciare il “club dei 28” per salvaguardare la sua sovranità sempre più “erosa” da Bruxelles.

Quella di Boris Johnson non è una contrapposizione culturale contro il vecchio continente ma la sua è solo una netta opposizione all’eccessiva influenza esercitata dalle istituzioni europee sulla sovranità britannica: “troppo attivismo giudiziario, troppe leggi che arrivano dall’Ue”, per non tenere conto del leader dell’UKIP Nigel Farage e del politico radicale George Galloway. In questa situazione Cameron corre il rischio di perdere il controllo del suo partito e del suo governo, mentre i ministri del suo governo favorevoli alla Brexit sono sempre di più, a cominciare dal dimissionario ministro del lavoro, Iain Duncan Smith, che ha affermato che se la Gran Bretagna resta all’interno dell’UE aumenteranno per il Paese i rischi di un attacco terroristico in stile Parigi. Ma il vero motivo trainante nascosto sotto questo movimento della Brexit è che il Regno Unito si preoccupa di respingere i piani annunciati da Bruxelles per un piano comune volto a contrastare l’elusione fiscale attuata su massiccia scala in Europa dalle principali imprese economiche mondiali e su cui l’UK vive e prospera.

La verità è che questa Europa è il frutto della strategia della Merkel che ha fatto sforzi immani per tamponare il crollo di un sistema che ormai fa comodo alla sola Germania e che si improntava sulla dilatazione all’inverosimile della entrata di altri Stati senza alcun progetto politico e che oggi però, imprevedibilmente, deve fare i conti con una crisi economica incontrollabile sempre più paragonabile a quella del ’29 e pure con un devastante terrorismo islamista che gira disinvolto per tutto un continente indifeso ormai immagine-simbolo di un ectoplasma liquido senza forma e senza anima, un non-stato, sezionato tra i singoli egoismi nazionali e privo di qualsiasi coesione.

Eufemisticamente è ancora da definire l’intesa sui migranti, mentre da una parte si sta tornando alla chiusura delle frontiere in Austria, Ungheria, Slovacchia, Danimarca, Olanda, Svezia, Polonia e Belgio per non parlare delle barriere innalzate da Albania, Bosnia, Bulgaria, Kosovo, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia.

Poi c’è la Grecia, che, con la sua infinita tragica storia, dopo che Tsipras l’ha illusa e tradita, si è di nuovo piegata all’ennesimo “piano di salvataggio” della Troika, che tutti sapevano fallimentare già in partenza e di cui l’odierna ricaduta in recessione ne è l’inevitabile conseguenza logica dalla quale non basterà il tempo per rendersi conto, come molti tuttora si rifiutano incredibilmente di ammettere, che rimanere nell’Euro significa per questo paese un’austerità infinita e fallimentare, che inasprirà inutilmente le sofferenze di un intero popolo. Il nuovo Primo Ministro e il suo ministro delle finanze “radicale” Yanis Varoufakis pensavano di poter cambiare le cose a Bruxelles e sottrarre la Grecia dalla coercizione fiscale voluta da Berlino e dopo più di sei mesi di negoziazioni, l’imposizione dei controlli di capitali, un referendum sull’euro che Tsipras ha presto tradito, i Greci si sono ritrovati di fronte a una vera e propria depressione, alla fine, Varoufakis ha dato le dimissioni e Tsipras ha concordato un terzo salvataggio prima di indire nuove elezioni che hanno poi visto il Primo Ministro rieletto a capo di un partito completamente distrutto. Il nuovo accordo e le sue condizioni non avrebbero fatto nulla per risollevare l’economia greca anzi la repressione fiscale ha sprofondato definitivamente la Grecia nella recessione. Ed adesso Tsipras si trova a dover fronteggiare la più grande rivolta pubblica da quando è stato rieletto, con lo sciopero generale di massa contro i piani di riforma delle pensioni richiesta dai creditori internazionali mentre gli agricoltori vedranno triplicarsi i loro contributi sociali e avranno da pagare tasse altissime a ciò si aggiunge l’epocale invasione di centinaia di migliaia di rifugiati e allora la paura di una Grexit sarà l’ultima delle preoccupazioni dell’Europa quando si diffonderà un caos infernale.

Parlando d’economia si parla di politica e la questione della Grecia incarna solo uno delle molteplici punti di lacerazione del fragile tessuto politico dell’Unione europea, ma se la perdita della Grecia da parte dell’Unione sarebbe stata letteralmente una catastrofe politica già dall’inizio, perché la futura sopravvivenza o morte dell’Unione Europea all’inizio passava dalla Grecia, oggi, in queste condizioni, sarebbe ingenuo non intravedere una stretta connessione tra il terremoto britannico a valle con la sua Brexit e il terremoto greco a monte con la sua Grexit e che entrambi non sono solo scosse sismiche di assestamento.

In tutto questo confuso coacervo ha chiuso il cerchio, sulla situazione internazionale, il vertice del G20 di Shanghai svoltosi nello stesso arco di tempo a Marzo che ha rilasciato la sua diagnosi formulata al termine della riunione tra ministri delle finanze e banchieri centrali sull’economia dei Paesi più industrializzati. Il G20 scopre un mondo sempre più vulnerabile: oltre al petrolio debole, ai flussi di capitali in uscita dai Paesi emergenti, alle escalation geopolitiche, individua altre due trappole da disinnescare: la cosiddetta Brexit, l’eventuale uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea che sarebbe uno choc per l’economia mondiale e il grande e crescente numero di rifugiati in alcune regioni, chiaro riferimento a quanto accade nel Mediterraneo; due fattori di crisi che hanno una radice comune: l’Europa in cui ciascuno pensa di salvarsi per sé, e i Britannici dal loro tradizionale isolazionismo prima degli altri; questa nuova fase è chiamata da qualcuno “stagnazione secolare”, da altri una cronica crisi da sotto-occupazione siamo nella trappola profetizzata tanti anni fa da Keynes, quella per cui l’economia è caduta in una spirale così profonda che la politica monetaria più solida possibile non produce il minimo effetto Da Shanghai arriva in definitiva un orientamento chiaro: di fronte della preoccupazione viva sulla tenuta della crescita economica la ripresa globale continua ma resta troppo debole e variabile e senza collaborazione tra Paesi la ripresa può deragliare e quindi l’unica strategia possibile proposta dal G20, osteggiata dai tedeschi, rilancia, laddove le finanze pubbliche lo rendano possibile, la spesa per gli investimenti da affiancare alle politiche monetarie che servono, ma non bastano, le banche centrali infatti hanno fatto molto per sostenere la crescita – con l’allentamento quantitativo inaugurato dalla Fed e adottato dalla Bce – e proseguiranno a farlo ma la politica monetaria da sola non può condurre a una crescita bilanciata ma spetta ai governi nazionali di proseguire nelle riforme strutturali e andare oltre, con misure a sostegno della crescita.

Roma, 31 Marzo 2016

Marcello Grotta