PROPOSTA CHOC DEI GEOGRAFI ITALIANI: NON PIÙ REGIONI, NÉ PROVINCE, MA SOLO 36 DIPARTIMENTI

L’inutile e faticosa riforma delle Province ha portato a dover ridiscutere da parte di diversi organi istituzionali su nuove forme di articolazioni territoriali ricostruite sulla base di elementi condivisi di geomorfologia, economia del territorio, cultura e tradizioni locali, mobilità integrata fino a giungere alla proposta della Società Geografica Italiana (SGI) che trova origine pure da un precedente lavoro, del 1999, del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Progetto Strategico Quadroter) e ripresa ancora nel 2013, ma che è stata rilanciata in grande stile qualche mese fa da varie forze politiche sia di destra che di sinistra, perché prospetta una interessante formula di suddivisione territoriale con soli 36 Dipartimenti, più omogenei per radici storiche ed economiche, al posto non solo delle 20 Regioni (21, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano) e delle ex 110 Province ma anche di tutti gli altri enti territoriali soprattutto trasformando i Comuni in nuove città verso una ri-territorializzazione degli assetti amministrativi.

Con la proposta della SGI di eliminazione delle 20 Regioni italiane e delle 110 Province e con la creazione di 36 Dipartimenti (ma possiamo anche chiamarli in altro modo: distretti, comprensori, province territoriali, regioni metropolitane… comunque entità territoriali in cui si individuano degli elementi geomorfologici storici in cui la popolazione può riconoscersi: un fiume, una pianura, una montagna), si formula una idea di resettamento complessivo della gestione territoriale che supera tutti gli altri progetti, come quello delle Macro-Regioni (al posto delle attuali Regioni), o delle nuove Aree Metropolitane in sostituzione delle vecchie Province, di accorpamento di Comuni (ma solo di quelli sotto i 5.000 abitanti), e che potrebbe veramente essere una decisiva via di uscita dal blocco totale di questa architettura istituzionale ed alla politica del non fare riforme, infatti si attuerebbe un forte processo di cambiamento basato su uno studio scientifico neutro rispetto agli attuali schieramenti partitici e che rispecchia l’Italia Fisica-Politica nella sua vera realtà.

Se poi andiamo a vedere la ripartizione territoriale di questi 36 Dipartimenti (che nascerebbero tenendo conto dei territori delle ex Province) ci accorgiamo che la suddivisione è molto interessante perché ricostruisce e aggrega luoghi di interscambio quotidiano (economici, culturali, di incontro delle persone, storici etc.) di aree attigue, che si autoidentificano e si autoriconoscono spontaneamente in un preciso assetto storico-temporale. Inoltre il progetto nel procedere alla riorganizzazione integrale di tutto il territorio nazionale porta anche al superamento del problema dei troppi Comuni: ben 8.101, che così come sono bloccano ogni processo di modernizzazione dei territori. Comuni (piccoli e medi) che gestiscono ad es. politiche fondamentali come l’urbanistica, cioè il territorio “loro”, come veri e propri sovrani indipendenti; che devono ora ridurre servizi e opportunità ai cittadini per scarsità finanziaria; con l’impossibilità di mettere in moto modi efficaci ad affrontare i nuovi disagi sociali; che non riescono nemmeno ora a fare la manutenzione delle strade, a garantire la sicurezza pubblica, a mettere a norma antisismica le scuole primarie di loro competenza. Per questo ogni nuova riforma territoriale passa per la revisione dei Comuni sostituendo al loro posto nuove Città di almeno 50-60.000 abitanti; solo così, peraltro, si garantirebbero servizi efficienti, ma anche la garanzia che i servizi in loco primari al cittadino (educativi, sanitari, di tutto quel che interessa alle persone…) possono rimanere in loco, anzi essere ancor più decentrati.

Ecco quali sono i 36 Dipartimenti, proposti dalla Società Geografica Italiana partendo da Nord-Ovest e finendo con le Isole:

1° Aosta, Verbano-Cusio-Ossola, Novara, Biella, Ivrea; 2° Torino; 3° Cuneo, Asti, Alessandria; 4° Milano e Pavia; 5° Bergamo, Como, Lecco, Varese, Sondrio, Monza-Brianza; 6° Piacenza, Cremona, Parma; 7° Brescia, Verona, Mantova; 8° Trento e Bolzano; 9° Venezia, Padova, Vicenza, Treviso, Belluno; 10° Trieste, Udine, Pordenone, Gorizia; 11° Ferrara e Rovigo; 12° Genova, Savona, Imperia; 13° Bologna, Modena, Reggio Emilia; 14° Ravenna, Rimini, Forlì Cesena; 15° Pisa, Livorno, La Spezia, Lucca, Massa e Carrara; 16° Firenze, Arezzo, Pistoia, Prato; 17° Siena e Grosseto 18° Ancona, Pesaro-Urbino, Macerata, Ascoli Piceno, Fermo; 19° Perugia e Terni; 20° Roma, Viterbo, Rieti; 21° Latina, Frosinone, Isernia; 22° L’Aquila, Pescara, Chieti, Teramo; 23° Napoli e Caserta; 24° Salerno, Benevento, Avellino; 25° Potenza e Matera; 26° Foggia e Campobasso; 27° Bari e Bat (Barletta-Andria-Trani); 28° Lecce, Taranto, Brindisi; 29° Cosenza, Catanzaro, Vibo Valentia, Crotone; 30° Reggio Calabria; 31° Messina; 32° Catania e Siracusa; 33° Ragusa, Agrigento, Caltanissetta, Enna; 34° Palermo e Trapani; 35° Cagliari, Carbonia-Iglesias, Medio-Campidano, Oristano; 36. Sassari, Nuoro, Olbia-Tempio.

I Dipartimenti che coincidono con gli attuali confini regionali sarebbero Marche, Umbria, Abruzzo, Basilicata, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige.

Questa suddivisione risolverebbe anche un altro radicatissimo quanto annoso problema creatosi in Italia nel dopoguerra detto di Iperterritorializzazione.

All’inizio, spiega la Società geografica italiana, c’erano le Province, retaggio tipico di un Risorgimento che aveva rinnegato il federalismo. Durante il Risorgimento, infatti, prevalse in Italia la decisione di adottare il modello centralistico di stampo napoleonico con 59 ripartizioni territoriali, le Province appunto, di dimensioni ottimali per poter essere attraversate in una giornata di cavallo, a sua volta suddivise in circondari nei quali era insediato un sottoprefetto. I Compartimenti statistici (cui furono assimilate in seguito le Regioni) si rifacevano invece piuttosto alla struttura territoriale degli Stati preunitari.

Poi, nel 1970 sono arrivate le Regioni, le quali avrebbero dovuto mettere fine a quel modello avviando la stagione delle autonomie e del decentramento, mentre le Province continuarono, paradossalmente, a lievitare, nel 1970, infatti erano 94, tre in più rispetto al 1947, fino ad arrivare ad oggi a 110, e con loro si moltiplicavano sul territorio ulteriori partizioni funzionali e amministrative (Comunità montane e collinari, Unioni dei Comuni, Centri per l’impiego, Distretti industriali, A.S.I. Aree di sviluppo industriale, A.T.O. ambiti territoriali ottimali, Consorzi di bonifica, Ambiti turistici, Zone di indirizzo dei fondi strutturali, A.S.L. Aziende sanitarie locali, perfino le Istituzioni scolastiche, per non parlare delle migliaia di società pubbliche locali, Circondari, Circoscrizioni comunali) che hanno fatto parlare di una cd. “iperterritorializzazione”, addirittura le stesse misure antagoniste messe in atto dal legislatore, tramite diverse forme associative (convenzioni, consorzi, unioni, fusioni) hanno avuto l’effetto contrario di bulimizzare la pleonastica organizzazione della Pubblica amministrazione così da trasformare il principio dell’autonomia in un delirio di architettura istituzionale, con sovrapposizioni di competenze, duplicazione di funzioni, moltiplicazione di responsabilità senza che nessuno fosse mai davvero responsabile. Il tutto con ben 5 Regioni (o 6, considerando le Province autonome di Trento e Bolzano) a statuto talmente speciale da metterle di fatto al riparo da qualunque condizionamento centrale. Un coacervo talmente complicato che nessuno è oggi nemmeno in grado di dire con esattezza quante siano in Italia le pubbliche amministrazioni: una recente ricognizione le ha stimate in un numero prossimo a 46 mila, ma con una stima approssimativa appunto, frutto dell’abnorme disordine prodotto da questa superfetazione incontrollata di livelli amministrativi.

La riforma del Titolo V della Costituzione voluta nel 2001 e l’introduzione del federalismo fiscale hanno ancor di più fatto riaffiorare notevoli resistenze e contrasti rispetto alle ipotesi di un eventuale riordino delle numerose circoscrizioni territoriali esistenti (come in Francia, con la recente riproposta di riforma di quello che lì viene definito il millefoglie territoriale) cosa che ha poi contribuito a far impazzire definitivamente il meccanismo, decentrando poteri spesso in modo totalmente irrazionale: basti dire che ogni Regione poteva farsi il bilancio con principi contabili propri, e che fra le materie di concorrenza legislativa fra Stato e Regioni era stato messo anche il lavoro; oppure come per l’Art. 132 della Costituzione, per cui è consentito a qualsiasi Comune o Provincia o Regione di aggregarsi a una Regione già esistente, oppure di crearne una ex novo. L’unico criterio che sembra interessare il legislatore è poi la soglia di abitanti, mentre non si fa cenno agli altri requisiti storici, economici, sociali o urbanistici, né alla morfologia fisica (montagne, bacini idrografici), né alla contiguità territoriale.

Non è un caso, dunque, che proprio dall’inizio degli anni ‘70 la spesa pubblica abbia cominciato ad aumentare esponenzialmente; in dieci anni infatti i bilanci regionali sono raddoppiati, senza che alla crescita delle spese in periferia abbia corrisposto una riduzione analoga delle spese dello Stato centrale. E fare marcia indietro ora si rivela complicatissimo, come dimostra la telenovela dell’abolizione delle Province.

Per la prima volta, da quando esistono le Regioni, sul tavolo del governo c’è una proposta che mette in discussione la loro stessa esistenza sulla base di quell’assunto del famoso geografo Calogero Muscarà che nel 1968, un paio d’anni prima che venissero create, le definì una guscio vuoto sul piano identitario riflesso dell’assenza di una coscienza regionale popolare. Lo stesso dirà poi il sociologo Arnaldo Bagnasco, secondo cui la Regione rinvia a una moltitudine di società locali che hanno le proprie reti, le proprie strategie, la propria coesione a livello municipale, e non già un riconosciuto governo regionale. Un guscio che però negli anni si è riempito di potere e soprattutto di denaro, tanto di quel denaro che ogni anno le Regioni gestiscono circa 200 miliardi di Euro, più di un quarto di tutta la spesa pubblica.

La successiva nascita di altre Province, fino alle attuali 110, ha rispecchiato esigenze di decentramento legate alle distanze e, più recentemente, il tentativo di dare respiro ad aree marginalizzate dalla crescita metropolitana, dall’isolamento economico o da crisi economiche strutturali. Se si fa un confronto a livello comunitario si scopre che tra il 1995 e il 2010 le unità territoriali di terzo livello (NUTS 3, il livello delle province italiane) nell’Unione Europea sono aumentate in maniera significativa solo in Spagna (da 52 a 59) e in Italia (da 95 nel 1992 a 110 nel 2004).

In Italia le recenti spinte organizzative sono apparse in generale diverse e talvolta anche contraddittorie, in base ai vari modelli economico-territoriali, talvolta sulla base dei sistemi locali produttivi, è stata giustificata negli ultimi venti anni la creazione delle nuove Province come estensione dei distretti di piccola impresa che rappresentano agglomerazioni produttive territorialmente definite che caratterizzavano il sistema-Italia. Ma quella soluzione non ha soddisfatto le istanze di altri distretti, ma neppure ha tenuto conto del declino industriale o della delocalizzazione delle produzioni in questione. Inoltre, se il criterio dei distretti produttivi venisse applicato con coerenza, dovrebbe determinare anche il declassamento di capoluoghi in declino.

Di quest’ultima proposta, tuttavia, risulta discutibile il percorso di aggregazione che risponde soltanto a criteri demografici, senza tendere a suddivisioni più omogenee dal punto di vista geo-economico (come quelle individuate dai Piani di sviluppo regionali). Non solo, si è altresì lamentato il mancato rafforzamento dei Piani di coordinamento provinciali, che potrebbero incidere sui processi di città diffusa, dispersione urbana, o cd. sprawl urbano, e che indicano quei fenomeni urbanistici connotati dalla crescita rapida e disordinata di una città, che sono collegate allo zoning comunale che è quel fattore che consente di gestire gran parte dei servizi collettivi (trasporti pubblici, controllo ambientale ecc.).

Neppure soddisfacente possono considerarsi gli alti modelli di riforma come la creazione delle Città Metropolitane o delle Macroregioni o Mesoregioni (vedasi riforma Delrio o la Proposta di Legge Costituzionale sulla riduzione delle Regioni Italiane da 20 a 12, Morassut- Ranucci) attraverso un approccio pluriregionale: unione fra intere regioni o approccio interregionale: aggregazione a una Regione esistente e accorpamenti tra Province appartenenti a Regioni diverse) o approccio infraregionale (unione tra Province attualmente ricomprese in un’unica Regione).

Altro problema del nostro Paese è quello dell’elevato numero di Comuni di modesta consistenza demografica, infatti le attuali delimitazioni comunali rispondono raramente ai più elementari criteri di efficienza amministrativa e programmatica, mentre il vero criterio da seguire dovrebbe rispondere all’esigenza di ampliare lo spazio di prossimità, della mobilità giornaliera per lavoro, studio e consumo, in questa direzione, è stato proposto di promuovere l’intercomunalità, con l’accortezza di fornire indicazioni di contenuto funzionale non solo in rapporto alle soglie demografiche (quelle fissate per l’intero territorio nazionale hanno poco senso), ma anche rispetto ai Sistemi Locali del Lavoro e ad analoghe elaborazioni, svolte a livello regionale, tese all’individuazione di livelli e di bacini ottimali di servizi o di aree intercomunali di programmazione territoriale o sanitaria.

A seguito della riforma costituzionale, lo Stato italiano ha conservato competenza legislativa rispetto a un numero limitato e tassativo di materie riferite all’amministrazione del territorio: legislazione elettorale, organi e funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane. Tutte le altre competenze spettano alle Regioni, che possono attribuire ai Comuni ulteriori funzioni amministrative (rispetto a quelle fondamentali garantite dalla legge statale); possono disciplinare gli ambiti territoriali minimi cui condizionare l’attribuzione di funzioni; possono disciplinare le forme associative e di cooperazione (Comunità montane, unioni di Comuni, convenzioni, consorzi, uffici comuni, delega di funzioni a Comuni più grandi ecc.); possono inoltre promuovere politiche di fusione tra municipalità di dimensione modesta.

L’intricato quadro della maglia amministrativa del Paese è reso più complesso dalla presenza di quegli enti che si collocano a una scala intermedia tra il Comune, la Provincia e la Regione e che partecipano direttamente alla gestione del territorio: aziende sanitarie, ospedaliere e territoriali, istituzioni scolastiche, aziende (o altri soggetti) di erogazione di servizi pubblici (acque, energia, trasporti), ma anche Comunità montane e ATO (Ambiti Territoriali Ottimali) oltre alla fitta rete di distrettualizzazioni originate dalle numerose amministrazioni funzionali periferiche dipendenti da Ministeri o enti del governo centrale. Negli ultimi venti anni sono inoltre state adottate nuove strategie di programmazione e politiche di sviluppo locale dai Patti Territoriali alla più recente Programmazione Integrata Territoriale.

La proliferazione di enti territoriali intermedi, e a cd. geometria variabile, ha ulteriormente appesantito l’iperterritorializzazione della maglia amministrativa. Le sovrapposizioni di competenze territoriali producono conflitti di potere, moltiplicano le disfunzioni della Pubblica Amministrazione, e soprattutto rendono impossibile alla cittadinanza un’adeguata fruizione dei servizi e sono spesso gli interessi delle singole comunità locali a emergere, esercitando un ruolo autonomo e, di fatto, superiore (l’Italia delle cento città cd.) senza affrontate le differenze tra le specifiche dinamiche urbano-regionali (aree monocentriche, policentriche, a rete urbana debole ecc.) viste alla luce delle sedimentazioni storiche. In verità la Regione venne concepita e creata come unità statistica secondo una logica funzionalistica i cui riferimenti furono la natura dei suoli, le leggi della distanza, della locomozione e del lavoro, la gerarchia delle località centrali, la coesione topografica che venne assunta a fondamento della coabitazione economica, identificando un alto numero di regioni (storico-geografiche).

Nel nostro sistema costituzionale, inoltre, le Regioni a statuto ordinario hanno un effettivo potere legislativo all’interno dei propri territori, ma non possiedono istanze di rappresentanza collettiva nazionale (come i Länder nel Bundesrat tedesco, o in altre forme le regioni spagnole e austriache) e soffrono tuttora della mancata piena disponibilità di importanti competenze in ragione del ritardato trasferimento da parte dello Stato, e tutte assieme non dispongono di un adeguato spazio politico rispetto alla gestione centrale del potere.

L’obiettivo dovrebbe essere quindi quello di realizzare una nuova organizzazione del sistema-Italia articolata in una molteplicità di centralità strategiche capaci di interagire in termini di massa critica e conseguire eccellenza e competitività (dalla manifattura, alla ricerca, alla filiera patrimonial-culturale), in cui tutto l’intero segmento dell’economia territoriale – opportunamente valorizzata, ripartirebbe ad una velocità dieci volte superiore a quella attuale, mettendo al centro programmazione e progettualità e politiche di intervento – verrebbe indirizzato verso metodologie di omogeneità funzionale e di alta specializzazione secondo un approccio di cd. place-based che trascende il falso dilemma del federalismo fiscale ma si articola sulla pluralità delle funzioni amministrative nel rispetto di criteri primari di identità territoriale: insomma un territorio coincide con la sua specializzazione, e si qualifica per la capacità di combinare l’insieme delle proprie risorse per auto-produrre le condizioni necessarie di autosostentamento materiale in corrispondenza della sua dimensione sociale, culturale, identitaria, demografica, conformando un metodo di zonizzazione comparativa dello spazio nazionale specchio delle specializzazioni funzionali valorizzando cioè il quadro di relazione delle aree metropolitane, delle aree urbane, delle aree a vocazione industriale, agro-industriale, agricola, turistica e così via.

Nel disegno di Legge costituzionale dell’8 Settembre 2011 il principio programmatico applicato era la sostituzione dell’entità amministrativa Provincia con l’entità funzionale Area vasta, che richiamava, da un lato, l’Unione di Comuni e, dall’altro, il Comprensorio, si precisava inoltre che le Regioni, nell’esercizio della propria competenza legislativa, avrebbero dovuto assicurare che gli enti locali regionali si estendessero su una superficie non inferiore ai 3.000 km² o contassero una popolazione di almeno 300.000 abitanti. Si reiterava in tal modo il difetto della prassi delle soglie, alquanto lontana da un corretto approccio all’analisi del territorio. Basti pensare che quella soglia demografica si sarebbe dovuta applicare alla Lombardia, con una densità di 412 ab./km², come alla Sardegna, dove la densità è di 69 ab./km².

In definitiva se è vero che, quello schema di riforma del 2011 proponeva un’ipotesi di riordino fondata su un unico livello territoriale di Area vasta che superasse le odierne Regioni e Province, basato sulla storia urbana italiana che porta a mettere al centro l’individuazione dei sistemi urbani, e quindi delle aree di attrazione delle Città, che per l’intero Paese, hanno sempre costituito la base delle relazioni sociali e produttive locali e di medio raggio, in cui i dati fondanti erano spazio, storia, popolazione, vocazioni, funzioni, relazioni, potenzialità economiche, identità locale, il genius loci dei luoghi e del territorio, pur tuttavia più concreta e più attinente alla realtà del territorio italiano indubbiamente ci appare la proposta della Società Geografica Italiana in quanto più collegata dinamicamente con la effettiva realtà storica, geopolitica e fisico-economica di questo Paese.

Roma, 31 Gennaio 2017

Marcello Grotta