La pandemia ci ha stravolto la vita coartando le nostre libertà e minando la fiducia che ciascuno di noi aveva in se stesso e negli altri.
Ha divaricato le distanze, ci ha imposto diffidenza in cambio di affetto dimostrato con un abbraccio, con un bacio o con una carezza.
Questo evento, che definirei congiunturale, ha messo a repentaglio il nostro istinto di amore e di condivisione mettendo in crisi l’umanità nella sua interezza.
Il concetto di felicità è diventato qualcosa di molto lontano che molti hanno smesso di ricercare e di perseguire per la mancanza di fiducia in se stessi, negli altri ed in chi rappresenta la comunità.
La felicità non è qualcosa di compiuto e di tangibile, di determinato ovvero di determinabile.
Ed allora come bisogna intenderlo il diritto alla felicità?
Prima di rispondere a questa domanda, direi che la felicità non sarebbe tale se non fosse condivisa e c’è un bisogno impellente di arricchirsi su questo tema e di rendere sempre più concreta la possibilità di inserimento nella carta costituzionale, basti pensare che gli americani lo fecero già nel 1776 e allora com’è possibile che in Italia la nostra costituzione non abbia ancora ospitato questo diritto al fine di garantirlo?
La felicità non va intesa come qualcosa di personale, che riguarda l’individuo nel suo solipsismo indecifrabile ma come un’anelito dell’individuo a perseguirla per la collettività,
a massimizzare questo concetto di cui tutti i consociati hanno diritto di beneficiare.
Qualcuno ha tentato di di avvicinare questo concetto al principio di uguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione ma esso può esserne al massimo una precondizione.
Il diritto alla felicità necessità di un sostegno importante per avere una sua realizzazione, ha bisogno di una codificazione, di un riconoscimento sia da chi di quel diritto ne è titolare sia da chi deve adoperarsi e predisporsi per garantirlo.
Non è possibile parlare di felicità se non in un’ottica di inclusione e non è giusto declinare questo concetto egoisticamente, non avrebbe senso.
L’ansietà – che è l’antitesi della felicità – ha preso il sopravvento privando noi adulti, giovani e meno giovani, di sognare e di sperare, di ambire al miglioramento nell’ottica di un’etica della responsabilità.
Il sogno e la speranza sembrano cose ormai riservate solo ai fanciulli, no non è così non bisogna relegarli alla fase dell’infanzia dell’individuo ma devono accompagnare l’esistenza di ciascuno abilitandoci ad avere possibilità, ad essere creativi ad essere innovativi senza correre il rischio di spersonalizzarci.
Già Dante, Lorenzo de’ Medici, Leopardi e più recentemente Montale hanno coniugato la felicità come motore dell’esistenza, come aspirazione e non come qualcosa il cui raggiungimento possa essere costato qualcosa al prossimo, come se ci fosse sempre un dualismo tra vincitore e perdente.
Lo spunto più interessante e di cui c’è più bisogno in questo momento ci viene fornito dal filosofo napoletano Filangieri, cui uno dei padri fondatori chiese un parere;
Filangieri non parlò certamente di felicità come di stato d’animo individuale ma come realizzazione di un governo giusto, in grado di assicurare benessere.
C’è bisogno di un’educazione alla scoperta dei valori, c’è bisogno che questi valori non siano solo qualcosa di appartenente ad un’epoca passata ma qualcosa che in un momento come questo andrebbe rispolverato.
Non dimentichiamoci che esiste una dignità umana che va rispettata e salvaguardata in tutte le sue espressioni e che deve esserci un diritto che ci abilita al benessere in un’ottica assolutamente inclusiva, esiste il diritto alla felicità che l’etica deve orientare in maniera tale da nobilitare le nostre vite nell’ottica di una proficua responsabilizzazione delle generazioni future.
Francesca Di Vadi Petriccione
(Avvocato internazionalista)