LA GABBIA DI ACCIAIO

Un’immagine appropriata che rende perfettamente l’idea, quella della “gabbia di acciaio”, quando la si riferisce alla coercizione del buon senso e dell’efficienza che quotidianamente pone in essere la “burocrazia” nel nostro Paese e, per la verità, anche in molti altri.

Un tema la cui attualità risiede proprio nella gravità e nell’urgenza che lo connotano, ma al tempo stesso un tema che va indagato con la dovuta attenzione, senza limitarsi ad utilizzarlo meramente al fine di creare alibi anche dinanzi ad insensatezze ed inefficienze evitabili con l’ordinaria diligenza.

L’etimologia ci consegna un termine nuovo composto da due lemmi, uno di origine francese bureau (ufficio) ed uno di provenienza greca kratos (potere), esso, quindi, indica “il potere degli uffici”.

Dal punto di vista storico, l’adozione di un struttura organizzativa costituita da numerosi uffici e da procedure unificate, volte ad organizzare gli apparati amministrativi dell’impero risale all’era dell’imperatore romano Claudio, ovvero al I secolo d.C.

Una simile strutturazione degli uffici pubblici rappresentò una novità rispetto alla tradizionale concentrazione del potere politico nelle mani del Senato, il cui peso andò via via riducendosi, proprio a causa di essa.

Il nuovo assetto politico che ne discese, vide l’interposizione tra l’imperatore ed il popolo di una nuova realtà “istituzionale”, ossia quella dei funzionari pubblici, malgrado essi dipendessero sempre dall’imperatore stesso.

Ciò, indubitabilmente, rappresentò una vera rivoluzione concettuale.

Il grande storico romano Publio Cornelio Tacito narrò nei suoi Annales, come Claudio affidasse i diversi uffici a suoi liberti quali Pallante, Narcisso, Callisto, essi di certo non si distinsero per onestà, incorruttibilità e capacità amministrative.

I burocrati ante litteram, invero, pur designati direttamente dall’Imperatore, furono pessimi funzionari pubblici, tanto che Tacito stesso riferì che essi: “esercitavano poteri regali con animo di schiavi”.

Il nuovo sistema introdotto da Claudio proseguì nei secoli successivi mediante articolazioni di uffici sempre più complesse e legate al potere politico e malgrado tale sistema fosse subordinato al controllo imperiale maturò progressivamente numerose peculiarità e funzioni che ne accrebbero l’importanza.

A consolidare la posizione dei “burocrati” romani contribuì un’assidua proliferazione di leggi e regolamenti, la cui conoscenza ed interpretazione divenne prerogativa dei predetti funzionari.

Tale iperfetazione normativa raggiunse il culmine durante l’impero bizantino e rappresentò un tratto distintivo del suo complicatissimo cerimoniale.

Ancora oggi, difatti, si usa parlare di bizantinismi allorché si alluda a procedure burocratiche tortuose ed incomprensibili, se non inutili.

Una, seppur sintetica, disamina storica dell’argomento, a mio avviso, non può eludere la menzione dell’opera e della visione politica di Machiavelli.

Nel capitolo IV della sua importante e nota opera, egli, riferendosi “a ministri” che governano per grazia ricevuta dal Principe, delinea, secondo un’interpretazione estensiva del termine, proprio i predecessori dei funzionari pubblici, che egli individua attraverso due categorie: de servi e de baroni.

Nella prima ipotesi, quella della “amministrazione per servi”, colui che svolge le proprie funzioni lo fa con lo specifico intento di soddisfare il Principe, il favore del quale mira ad ingraziarsi, non avendo alcun ruolo che gli conferisca un prestigio ed un’autonomia personale.

Nel caso della “amministrazione per baroni”, invece, costoro hanno un rapporto con il Principe di carattere, in un certo senso, contrattuale. Egli, pertanto, ha un ruolo di primus inter pares e deve tenere nel giusto conto le deliberazioni dei baroni, i quali assumono una posizione autonoma e di prestigio, vista la loro natura aristocratica.

Infine, si può affermare che l’alternativa burocratica costituita dalla “amministrazione per funzionari”, presenti evidenti analogie con ambedue le precedenti forme di amministrazione testé descritte.

Ovviamente il ragionamento intorno all’opera del grande Segretario fiorentino meriterebbe un approfondimento ed un vaglio ad hoc, che qui non ci è consentito.

Un importante ruolo nello sviluppo del “potere degli uffici” lo riveste, senza dubbio, il contesto in cui esso si realizza, in particolare nella Prussia di Federico II il Grande.

Tale contesto è quello “dell’illuminismo giuridico” che si può collocare intorno alla metà del XVIII secolo.

L’illuminismo, infatti, propone una nuova prospettiva in ordine alla organizzazione giuridica ed alle codificazioni ad essa sottese, le quali entrano a far parte dei più ampi piani politici generatisi nell’ambito delle più vaste riforme assolutistiche.

Di norma le codificazioni che discendevano da tale prospettiva poggiavano sui principi cardine peculiari della visuale illuministica, ovvero quelli secondo cui: tutti gli uomini nascono con dei diritti naturali e imprescrittibili; le leggi devono riconoscere quei diritti; tali diritti sono riconoscibili mediante ragione; le leggi devono essere espressione della ragione; esse devono essere semplici e comprensibili; devono essere certe e correttamente applicate; per essere tali o sono espressione della volontà popolare o sono applicate da persone diverse da quelli che le formulano, quindi sono affidate a Funzionari Pubblici.

Appare evidente come l’applicazione dei requisiti-principi di cui sopra alle diverse codificazioni europee non potesse e non dovesse prescindere dalle specificità delle disparate realtà territoriali e dalle loro interpretazioni difformi del concetto di “illuminismo giuridico”.

Nell’area germanica, ad esempio, la cultura giuridica del sovrano, dei suoi funzionari, degli uffici esplicò, in realtà, funzioni di rinnovamento e rafforzamento del potere statale.

Differente, ovviamente, fu l’interpretazione promanante dalla Francia, ove l’illuminismo giuridico rappresentò un impulso sovvertitore.

Orbene, in un contesto tanto eterogeneo e complicato assume grande rilievo, in relazione alla tematica in esame, la riforma politico-amministrativa varata proprio da Federico Guglielmo I e Federico II il Grande.

Ed infatti, verso la fine del Seicento in Prussia si registrò una progressiva operazione di accentramento politico-amministrativo che produsse il sostanziale esautoramento degli “stati” Prussiani.

Tale processo, che venne portato a termine da Federico II, estromise dal controllo della finanza pubblica e dell’amministrazione militare, “il Collegio degli stati”, organo deputato alla tutela degli “stati” stessi attraverso un potere di veto di natura finanziaria.

In buona sostanza, al ” Collegio degli stati” venne sottratta l’amministrazione finanziaria e una parte di quella militare, che vennero affidati al controllo del sovrano, il quale delegò l’amministrazione di tali poteri finanziari a funzionari pubblici prezzolati.

Non vi è dubbio che ciò costituì il primo passo per un’ulteriore riforma amministrativa ispirata alla creazione di una burocrazia capace e gerarchizzata al servizio dello Stato, insomma, il primo esempio di una moderna burocrazia accentrata.

Il disegno politico-amministrativo di Federico Guglielmo I procedette mediante una seconda riforma amministrativa, anch’essa accentratrice, il cui oggetto furono altre materie di importanza strategica quali: la politica estera, il settore giudiziario e quello del culto.

Il figlio, Federico II,  non solo mantenne la visione del padre, bensì ne irrobustì la portata burocratizzante.

Per raggiungere i propri fini di unificazione delle leggi ed organizzazione amministrativa, Federico II trasse ispirazione da alcuni principi di matrice illuministica.

Le leggi dovevano essere poche, chiare e precise, non contraddittorie, generali ed astratte, nonché “riunite in un corpo unitario”.

Un importante ed ineludibile contributo, che si pone sul medesimo piano di approfondimento della tematica oggetto del breve excursus storico sin qui condotto, ci proviene dal grande e multidisciplinare pensatore tedesco Max Weber.

Questi, esaminando gli svariati aspetti della società contemporanea introdusse , per primo, la metafora della “gabbia d’acciaio”.

Con tale espressione, invero, Weber volle significare come l’uomo contemporaneo fosse soggetto ad una sequela di costrizioni.

Tali coercizioni, alle quali l’uomo non può sottrarsi, in realtà, sono peculiari proprio dell’era contemporanea e provengono dall’economia capitalistica e dalla burocrazia, ossia due ideazioni della società moderna.

La sfera economica e quella amministrativa, unitamente alla sfera pubblica, obbligano gli uomini a seguire un insieme di regole, precetti, norme e convenzioni che rendono la loro vita “ostaggio di una prigione mentale” frutto, secondo il grande pensatore tedesco, di un procedimento di razionalizzazione della società moderna.

Tutto sommato questa “razionalizzazione della società moderna” sembra assimilabile, per alcuni versi, all’alienazione marxiana

Ebbene, con il termine razionalizzazione  Max Weber  volle definire il processo storico che consentì il passaggio dalla società tradizionale alla società moderna.

Evoluzione storico-sociologica che avvenne mediante l’estensione progressiva dell’uso della ragione nell’interpretazione della realtà e nella organizzazione della vita sociale, la quale investì e modificò ogni ordinamento sociale.

La volontà di comprendere la natura del “potere” e della “autorità” fu per Weber una vera e propria linea guida.

In fondo, la sua indagine lo indusse ad individuare, con il termine razionalizzazione la graduale burocratizzazione dell’organizzazione sociale.

In altri termini, l’attività di moltissime persone, viene via via coordinata e pianificata mediante l’istituzione di uffici suddivisi gerarchicamente e rispondenti a regole impersonali.

Ad ogni ufficio sono assegnate aree di giurisdizione specifiche e sfere di dovere precise e proprio da ciò discendono i vantaggi della burocratizzazione.

In primo luogo, i risultati dell’azione amministrativa, fondata su procedure sistematiche e precise, diventano razionalmente calcolabili; inoltre tale sistema non si presta a gestire situazioni soggettive eludendo, così, i rischi a ciò connessi; si concreta, poi, l’indispensabile esclusione dall’organizzazione del lavoro di qualsiasi “fattore irrazionale, individuale, del sentimento”.

La nuova figura del funzionario, emotivamente distaccato, rigoroso ed imparziale, esperto e professionale, insomma, diverge fortemente da quella del capo, dell’anziano o del vecchio coordinatore del villaggio, il quale era mosso da fattori spesso personali come simpatia, favore, grazia e gratitudine.

In buona sostanza, la burocrazia è, per Weber, una forma particolarmente pervasiva, e per certi aspetti pericolosa, del processo di razionalizzazione sopra esaminato, essa implica la gestione non tanto di oggetti, macchine o procedure, quanto piuttosto di esseri umani.

Egli, per meglio descrivere il fenomeno si riferì al concetto di “tipo ideale”, attraverso il quale delineò i caratteri doverosamente peculiari del modello burocratico della società moderna.

L’impiego nella burocrazia, quindi, costituisce una vera e propria carriera, che inizia con l’assunzione ed è basata su qualifiche tecniche, su un sistema di promozioni generalmente prevedibile imperniato sia sul merito, sia sull’anzianità, ma non su favoritismi personali, è protetto dal licenziamento arbitrario e gode di prerogative specifiche, che dovrebbero fungere da garanzia contro la corruzione.

Weber riteneva, dunque, che un’organizzazione di questo tipo fosse adatta a controllare in modo molto efficace la produttività e l’efficienza dei processi ad essa sottesi.

Certamente all’illustre pensatore, non sfuggiva la differenza tra i due tipi di azione insiti nelle diverse visioni dell’organizzazione sociale, ovvero quella guidata dal pensiero tecnocratico e burocratico e quella che persegue scopi dettati dall’etica, non necessariamente razionali, ma che si serve di mezzi razionali ed efficienti posti a servizio di tali scopi.

Tuttavia egli evidenzia come la prima visione, fondata sulla burocrazia, da un lato garantisca un considerevole aumento di produttività, ma dall’altro lato provochi, una forma di “disincanto” del mondo, che perde in creatività e bellezza quanto guadagna in efficienza.

Il rischio, dunque, è quello di finire per trovarsi rinchiusi in una “gabbia di acciaio”, le cui chiavi sono gestite dalla burocrazia.

Il modello Weberiano di burocrazia incentrato sulla efficienza e produttività è relativo ad un sistema come quello tedesco, in cui le antiche e rigide tradizioni degli uffici pubblici e la visione fondata sulla interpretazione del proprio compito come vocazione (berufung), presenta indiscutibili vantaggi, tuttavia esso, a mio avviso correttamente, è stato radicalmente criticato e posto in discussione.

Le maggiori obiezioni si fondano su contestazioni di tipo pragmatico che difficilmente possono essere confutate.

Credo, infatti, che non possa negarsi come la formazione professionale del personale non possa essere, di per se stessa, una garanzia sufficiente del corretto funzionamento dell’apparato amministrativo, viceversa non di rado essa sfocia in una forma di inadeguatezza che indusse il sociologo statunitense Robert King Merton a definirla “incapacità addestrata”.

Per mezzo di tale locuzione, che ritengo assolutamente confacente, Merton intese alludere alla ineludibile constatazione secondo cui “le azioni basate sull’addestramento e l’abilità tecnica, che in passato avevano dato un risultato positivo, possono risultare inappropriate sotto mutate condizioni”, rimarcando, con ciò, che i funzionari addestrati a determinate procedure troppo spesso mostrano di incarnare la presunzione che la realtà rimanga indefinitamente la stessa.

Questo implica che dinanzi a mutamenti di tale realtà o difronte al sorgere di problematiche inedite, alla mancanza di duttilità dei burocrati nell’applicazione delle norme consegua, sotto il profilo pratico, il mancato perseguimento degli scopi per cui l’organismo burocratico stesso è stato creato.

In altre parole la burocrazia appalesa una cronica incapacità di adattarsi al nuovo, giacché vincolata alle procedure che l’hanno formata , di conseguenza la sua azione diviene rigida e statica, nonché incapace di adeguare le norme al mutamento sociale al quale, anzi, oppone una ostinata resistenza.

Si tratta di quello che Merton definisce “il ritualismo burocratico”.

L’analisi critica dell’autore diviene inesorabile, ma ritengo colga nel segno, allorquando tratteggia l’atteggiamento ritualistico dei funzionari  “in cui norme e procedure vengono santificate”.

Osserva acutamente Merton: “In questo modo proprio le condizioni che normalmente portano all’efficienza  in situazioni particolari e specifiche producono inefficienze … Le regole diventano ad un certo punto simboliche piuttosto che strettamente utilitarie“.

Ed allora, si comprende come un sistema organizzativo siffatto presenti quale sua precipua caratteristica proprio la rigidità e non possa in alcun modo adattarsi al mutamento, tendendo, al contrario, ad opporvi resistenza.

Ancor più preoccupante appare la constatazione secondo cui la suddetta rigidità permei di se la burocrazia anche al suo interno e generi quello “spirito di corpo” che solca un vero e proprio fossato tra funzionario e pubblico.

I funzionari, per l’appunto, sono sostanzialmente garantiti dalla, pressoché, automatica progressione di carriera che limita la competizione all’interno del loro corpo burocratico, ormai, compatto e solidale.

Le conseguenze di quanto sopra vengono pagate anche dai superiori, contro i quali spesso i funzionari medesimi instaurano una “guerriglia” che assume forme disparate, dalla sovrapproduzione di documentazione sino all’ostracismo di informazioni nodali.

Un sistema di tal fatta mette in seria crisi anche il rapporto tra gli uffici pubblici ed i c.d. utenti, esattamente coloro ai quali gli uffici dovrebbero essere dedicati ed al servizio dei quali dovrebbero svolgere le loro funzioni che, viceversa, vengono trattate come mere “pratiche”.

Le considerazioni sopra svolte ed ispirate alla visione di Merton circa la “casta burocratica”,

ed il “circolo vizioso disfunzionale” che da essa promana, possono apparire piuttosto desolanti ed inquietanti, tuttavia sono difficilmente confutabili.

Ancor più compiuta e pregnante, mi sembra sia l’analisi del fenomeno burocratico operata dal sociologo francese Michel Crozier .

L’analisi attenta ed approfondita del “phénomène bureaucratique”, come lo stesso autore lo definì nella sua nota pubblicazione, ebbe un riscontro notevole in Francia, tanto da fungere da vera e propria linea guida per la riforma dell’apparato amministrativo francese.

Grazie ai rilievi critici, alle proposte ed indubbiamente alle intuizioni di Michel Cozier, il sistema amministrativo francese è oggi sensibilmente meno burocratico e rigido di un tempo e molto più imprenditoriale e dinamico.

Ciò è certamente il frutto della preziosa influenza che Crozier mediante le sue idee, il suo impegno e la sua funzione di consulente esercitò sulla classe politico-amministrativa francese, alla quale va riconosciuta perspicacia e persino coraggio nell’attuazione dello snellimento burocratico.

Crozier seppe affrontare la delicata questione prendendo atto della diffusa avversione nei confronti del fenomeno, percepito ormai in senso dispregiativo.

Con il termine “burocratico”, difatti, si allude all’eccessivo formalismo intriso di vincoli e procedure, spesso pleonastiche, che ostacolano il raggiungimento di determinati obiettivi personali o statali.

L’attuale accezione del termine, pertanto, è sinonimo di: rigidità, lentezza, incapacità di adattamento, inefficienza, inefficacia, lessico complicato o addirittura incomprensibile (il c.d. burocratese), mancanza di stimoli, deresponsabilizzazione, eccessiva pervasività, propensione a regolamentare ogni minimo aspetto della vita quotidiana.

I profili patologici di tale sistema si aggravano laddove le funzioni di controllo, che la politica dovrebbe esercitare, si indeboliscono consentendo il radicamento di un potere duraturo, il “potere degli uffici” per l’appunto, pronto ed incline a trasformare il potere delegato in potere proprio.

Ritengo assolutamente emblematica una frase di Crozier che rivela con vigore e passione il suo pensiero: “l’uomo non è soltanto un braccio e non è soltanto un cuore. L’uomo è una mente, un progetto, una libertà”.

Coerentemente con tale condivisibile affermazione, che contiene già di per se stessa una visione ed una proiezione programmatica, il sociologo francese non si limitò al mero auspicare, bensì contribuì affinché si riconoscesse alle persone la capacità di pensare, di progettare e di fare scelte, anche non previste dall’ente in cui agiscono.

Il modello di organizzazione proposto, dunque, mette la persona al centro del funzionamento e della strategia amministrativo-aziendale.

Mi pare evidente, di conseguenza, la critica al modello weberiano di cui ho tratteggiato i caratteri in precedenza.

Crozier suggerisce, di fatto, un intervento sulla burocrazia che si fondi sulla “analisi strategica dei comportamenti burocratici”

In altri termini, pianificare e vagliare la condotta degli apparati burocratici, personali e collettivi, in modo tale da comprenderli ed indirizzarli verso il pratico raggiungimento degli scopi cui l’organizzazione mira.

Oltre a ciò egli evidenzia la necessità di rivedere i rapporti di potere, che non si debbono limitare ad ottenere obbedienza ad un comando, secondo la concezione Weberiana, bensì consistono nella capacità di un soggetto di fare propri e riuscire a difendere margini, sia pure minimi, di libertà di scelta, rendendo la propria condotta per qualche aspetto imprevedibile agli altri.

Insorgono, difatti, situazioni in cui le procedure previste non sono sufficienti e, soprattutto, gli esseri umani non sono sempre riconducibili a comportamenti predeterminati come “api nell’alveare”, in simili possibili circostanze l’uomo, inteso come “mente, progetto e libertà“, è in grado di superare il modello burocratico, proprio in ragione della imprevedibilità che è al tempo stesso libertà ed anche potere.

Di notevole interesse ed attualità, allora, sono le considerazioni relative al potere che inducono Crosier a rilevare come all’interno delle organizzazioni strutturate con rigidi formalismi, vincoli e regole esso generi molto spesso lotte per conquistare o mantenere il controllo delle fonti di incertezza.

Si tratta, per la verità, di conflitti tra chi cerca di consolidare gli spazi di iniziativa e di autonomia conquistati e di conservare i margini di incertezza del proprio ruolo operativo e chi, invece, di norma l’alta dirigenza e gli organi ispettivi, cerca di sottrarre quei margini attraverso supervisioni di carattere rigido e formale ed ulteriori regolamentazioni.

Anche Crozier come già Merton, inoltre, non elude il perniciosissimo problema della resistenza al cambiamento insita nelle organizzazioni burocratiche.

Egli riconduce tale cronica incapacità alla natura stessa della burocrazia, la quale è congeniata in modo da interpretare le istanze di rinnovamento alla stregua di attacchi dai quali difendersi provocando ulteriori rigidità.

A ben osservare, si può ravvisare quel “circolo vizioso disfunzionale” che aveva segnalato proprio Merton.

Crozier, tuttavia, ne approfondisce ancor più dettagliatamente gli aspetti, il cui esame, qui limitato, necessiterebbe un apposito e minuzioso approfondimento.

Naturalmente un sistema articolato in diversi livelli gerarchici, come quello burocratico, si caratterizza per il costante rimbalzo delle responsabilità causa del mancato cambiamento su coloro che ricoprono funzioni di livello superiore di comando, sin quando i vertici della gerarchia non impieghino l’unico metodo che conoscono per rinnovare la struttura, ovvero quello di emanare nuove norme.

Tali norme sopravvenienti, però, finiscono per irrigidire ulteriormente l’apparato burocratico, che reagisce opponendo ulteriori ostacoli.

Credo che non possa negarsi come ciò che più gioverebbe al rinnovamento sarebbe: la delega di responsabilità, l’iniziativa discrezionale e l’adozione di strumenti di azione diffusi lungo tutta la linea gerarchica.

Ebbene, è di tutta evidenza che laddove non si concretizzi un reale decentramento decisionale, individui o singoli gruppi, utilizzino la menzionata rigidità dell’apparato per migliorare la loro posizione di potere e spingere verso la centralizzazione.

In altre parole, la burocrazia rappresenta “un sistema organizzativo che non è capace di correggersi in funzione dei suoi errori e le cui disfunzioni sono uno degli elementi essenziali del suo equilibrio“.

Tale problematica si accentua maggiormente nel contesto delle moderne società che sono oggetto e fonte di continua evoluzione e cambiamento.

Ed allora, proprio da tale constatazione Michel Crozier trasse la convinzione che dinanzi ad esigenze sociali disattese discenda, inevitabilmente, la “crisi“ della burocrazia che si vede costretta ad evolversi. Ciò che egli definisce il “mutamento per crisi”.

Del resto, la stessa storia francese offre molteplici esempi che corroborano la teorizzazione del grande sociologo.

La rivoluzione del 1789, l’avvento di Napoleone Buonaparte ed il suo regime, la Terza Repubblica nel 1870, la Quinta Repubblica di De Gaulle nel 1958, costituirono occasioni proficue e ben sfruttate di mutamento del sistema di potere, ivi compreso quello della pubblica amministrazione.

La visione di Crozier, tuttavia, divenne meno pessimistica allorquando, proprio in virtù del suo impegno e contributo, riscontrò che la classe politica aveva recepito le sue critiche e stava iniziando a riformare la pubblica amministrazione, rendendola più agile grazie alla responsabilizzazione dei suoi funzionari e dirigenti.

Insomma, Crozier vide accolto il suo auspicio secondo cui “ è meno grave rischiare casi di incapacità e di sperpero piuttosto che mantenere la società bloccata a causa della paralisi della sua classe amministrativa”.

Come dargli torto?

Mi sembra interessante rammentare, infine, come Crozier ritenesse che perfino le imprese e non solo la pubblica amministrazione patissero i gravissimi inconvenienti derivanti dagli eccessi di burocrazia.

Per tale ragione egli sollecitò anche tali enti ad adottare ed attuare forme più moderne di organizzazione, in grado di liberare l’autonomia e lo spirito creativo del personale nella ricerca di soluzioni flessibili e innovative.

In definitiva, ad avviso dell’illustre sociologo, per fronteggiare un mondo più complesso, nel quale la qualità ha certamente maggior valore rispetto alla mera quantità e dove la soddisfazione del cliente ha la priorità sinanco rispetto all’efficienza produttiva, vi è urgenza di riconsiderare i modelli organizzativi, plasmando il nuovo management sulla base di tre principi fondamentali: la semplicità, l’autonomia e la cultura.

In estrema sintesi, per Crozier, le imprese devono deburocratizzarsi, lasciando maggiore spazio all’autonomia delle persone che vi lavorano, le quali devono essere opportunamente e continuamente formate per accrescere le loro competenze e devono essere coordinate non attraverso ordini gerarchici, bensì attraverso la costruzione di uno scopo comune, di una cultura condivisa.

Vorrei concludere queste riflessioni sul fenomeno della burocrazia sollecitando l’attenzione circa l’urgenza di addivenire ad una risoluzione di una problematica le cui radici risiedono, probabilmente, nelle molteplici e diverse ragioni che nelle pagine che precedono sono state prese in considerazione.

Orbene, non può sfuggire né può sottacersi per amor di patria, che la questione è assai complessa e confusa nel nostro Paese, ove la burocrazia presenta troppo di sovente aspetti di ottusità e di pericoloso distacco dalla realtà concreta.

Si tratta di prendere atto del radicamento di un distorto sistema che sfocia nell’ eccessiva proliferazione normativa ove, non di rado, si verificano antinomie assolute, oppure contrasti che consentono a chi dispone di applicare arbitrariamente norme e procedure, prescindendo dalle palesi esigenze consigliate dalla logica e/o persino dalla ratio stessa della norma.

Un impianto che autorizza i burocrati ad ostacolare o rallentare processi produttivi, applicazione di diritti elementari, somministrazione di beni o servizi e finanche di giustizia a coloro che si attendono legittimamente tali prestazioni.

La deresponsabilizzazione e la sostanziale “immunità burocratica“ dei singoli membri dell’apparato, anche ai livelli più elevati, permette ai funzionari di barricarsi dietro la rigida applicazione di procedure che molte volte risultano essere anacronistiche, ripetitive, dilatorie ed inutili.

Tali condizioni generano un habitat viziato da eccesso di formalismo, ipertrofia normativa e regolamentare, prolificazione di vincoli ed iter, ove le competenze dei singoli apparati, spesso, si sovrappongono o si contraddicono, richiedendo al cittadino, ormai non più persona ma utente, continui sfiancanti e frustranti adempimenti solo per ottenere risposte alle proprie aspettative e l’applicazione dei propri diritti.

Appare sin troppo palese che in condizioni quali quelle appena descritte e nell’humus che ne discende, sia più agevole la proliferazione di pratiche illegittime o addirittura illegali che producono, purtroppo non isolatamente, fenomeni di corruzione, abusi ed altre fattispecie penalmente rilevanti.

In tal guisa il rischio, attuale e concreto, è quello che i cittadini e non solo loro, perdano definitivamente la fiducia nei funzionari pubblici e perfino nella stessa classe dirigente ed amministrativa dello stato.

Tutto sommato la burocrazia dovrebbe rappresentare ben altro, ossia l’attitudine a garantire il corretto funzionamento degli uffici, così come auspicava Max Weber.

Essa dovrebbe, altresì, essere al servizio di coloro che la interpellano, fornendo risposte e soluzioni rapide e praticabili.

Malauguratamente, si deve constatare come le conferenti ed appropriate argomentazioni e critiche formulate dagli autori sopra esaminati colgano perfettamente nel segno, tanto più se le si ascrivono alla situazione della burocrazia italiana.

Orbene, ho segnalato innanzi come alcuni paesi abbiano avuto la capacità di avviare percorsi di ammodernamento e snellimento dei loro sistemi burocratici raggiungendo, sebbene con notevole profusione di energie e rigore, notevoli risultati.

L’auspicio e la speranza, dunque, cui affido la conclusione di queste mie meditazioni è quello che anche nel nostro paese si possa, al più presto, pervenire a risultati analoghi.

In fondo l’Italia, in ragione di ciò che la sua storia, le sue tradizioni e la sua cultura rappresentano, lo meriterebbe.

ROLANDO GROSSI