IPERFETAZIONE NORMATIVA ED ESIGENZA DI SEMPLIFICAZIONE

Sin troppo di sovente udiamo obiettare che il dovere, l’obbligo, il precetto, il canone, la legge, la norma, le regole impongano di fare o non fare alcune cose, di esimersi da determinate condotte o di porne in essere certe altre e così via.

In alcuni Paesi e/o contesti umani provvisti di “sofisticati” e persino “ingegnosi od a bella posta congeniati” sistemi normativi il ricorso alle regole, il rinvio ad esse diviene esasperatamente pressante ed opprimente.

Si tratta, insomma, di sistemi ove spesso si giunge a ciò che definirei una iperfetazione normativa, il cui esito è quello di creare un coacervo di disposizioni che, non di rado, vengono a trovarsi in contraddizione le une con le altre.

Del resto ciò è inevitabile ed è il frutto dell’insicurezza (o forse incompetenza?) di classi dirigenti, le quali, non essendo in grado di sovraintendere ai processi organizzativi loro demandati, cercano risposte ed appianamento alle istanze che si sottopongono loro, proprio nel ricorso ad una regola scritta.

A tale problematica di sovrapproduzione, che già di per se stessa raggiunge livelli impensabili a priori, si aggiunge la pretesa interpretativa di coloro i quali questa congerie di norme dovrebbe solo applicare, nel rispetto dei criteri più elementari che la scienza dell’ermeneutica pone a disposizione.

Costoro, invero, si ergono, troppo spesso, a latori di una giustezza interpretativa che, al contrario di quanto essi stessi intendano, è un’incombenza che non spetterebbe loro.

Ciò che maggiormente lascia perplessi, se non addirittura sgomenti coloro i quali con tali soggetti si trovano, obtorto collo, ad interagire.

Si tratta, senza sorta di dubbio, della indeterminatezza che la predetta sovrapproduzione normativa genera.

Ebbene, cosa debba intendersi per norma, regola ovvero legge, fa d’uopo chiarirlo.

A dire il vero il termine regola, che ci proviene dal latino regula assume molteplici significati, ciascheduno in dipendenza dai contesti nei quali si intenda utilizzarlo, tuttavia quello che interessa nell’odierna trattazione è, senza incertezze, quello afferente al diritto.

La regola di diritto (regula iuris), dunque, unitamente a quanto ad essa possa connettersi, è quella che qui mi preme indagare.

Essa rinvia direttamente ai concetti cui ho fatto riferimento nell’incipit del presente scritto e viene spesso interpretata in guisa di sinonimo di norma.

A sua volta il termine norma (dallo stesso sostantivo latino norma) viene intesa come dettame da ritenersi valido e vincolante in ogni situazione, poiché formulato mediante un processo logico di astrazione sulla base della tradizione e dell’esperienza, nonché rispondente ad esigenze ritenute ineludibili ed indispensabili per il contesto in cui tale norma viene data ed imposta.

In definitiva, la norma deve considerarsi, secondo il diritto, quale regola di condotta vigente nell’ordinamento giuridico e traente da questo la propria forza imperativa.

Ovviamente, nell’accezione confacente al senso sotteso alle argomentazioni che in questa sede interessano, i diversi termini sopra menzionati, in buona sostanza, sono certamente sussumibili sotto quello più ampio e di antica provenienza, ossia il termine lex, che affonda la sua radice etimologica nel verbo greco λέγω , ovvero “dico”.

La legge insomma, la quale può sinteticamente definirsi come “ogni prescrizione che costituisce elemento dell’ordinamento giuridico”.

Non vi è dubbio che al termine legge sia ascrivibile una enorme molteplicità di significati ed adattamenti contenutistici che renderebbe improbabile una loro elencazione esaustiva.

Orbene, occorrerebbe forse chiedersi se all’enorme attività di produzione normativa, corrisponda veramente una esigenza pratica ed una visione d’insieme e se quest’ultima a sua volta corrisponda ai reali bisogni dello Stato, nonché e soprattutto, se soddisfi quelli di coloro che ne sono i destinatari.

Eppure, tale considerazione sembra sfuggire e la produzione incessante scoordinata della “massa di regole” appare divenire sempre più inarrestabile.

Beninteso, non si tratta di contestare le regole e le leggi in quanto tali, bensì di prendere definitivamente coscienza che molte, troppe di esse sono, nella migliore delle ipotesi, inutili e ridondanti se non, ancor peggio, nocive o pericolose per il corretto funzionamento della Comunità.

Quanto sopra, malauguratamente, rappresenta una patologia che affligge ogni ambito dell’organizzazione pubblica e persino privata.

Non ci si può esimere dal constatare come le drammatiche conseguenze di tale ipernormazione ricadano inesorabilmente su ogni contesto della vita quotidiana, irrobustendo così posizioni di potere esistenti e che da esse traggono vigore, ma altresì alimentando la costituzione di nuovi sistemi di dominio.

Ritengo, difatti, che sia evidente come l’eccesso di regole conduca ineluttabilmente al loro intricarsi in grovigli normativi dai quali difficilmente l’uomo comune, il civis cui esse sono destinate riesce, per l’appunto, a districarsi.

Da una simile situazione e dalla condizione di disorientamento proprio del civis che ne discende, molto spesso scaturisce una confusione precettistica il cui esito finale è la “violazione della regola”, colposa, indotta e, probabilmente, inevitabile.

Non sono certo rari i casi di inosservanza od inadempienza alle norme, cagionata dalla impossibilità di conoscerne o comprenderne l’esatto contenuto precettivo e ciò prescindendo dalla percezione della loro più o meno condivisibile ratio.

In altri termini, accade sempre con maggiore frequenza che ci si trovi nella condizione di inabilità ad adempiere correttamente a disposizioni o direttive riguardanti una materia, il cui corredo normativo muta senza soluzione di continuità e, fatto che è ancor più grave, senza una visione, un coordinamento, un’armonizzazione che imponga il venir meno del dettame superato.

Vi sono stati e tutt’ora vi sono coraggiosi fautori del principio di semplificazione normativa, tuttavia dinanzi all’applicazione concreta di simili meritorie teorizzazioni, si è sin troppo spesso assistito ad una reazione restauratrice, che pervicacemente ha materializzato nuove disposizioni, anziché ottimizzare quelle esistenti.

Tanto per esser chiari ed empiricamente orientati, poniamo ad esempio l’abolizione della indispensabilità di una certificazione, la quale spesso finisce col divenire solamente un mero buon proposito ed un condivisibile auspicio, nel momento in cui coloro ai quali è demandato di prenderne atto, nell’incertezza dell’applicabilità della disposizione, continuino a richiederla ed a porla come condizione per il completamento di un procedimento.

Da tale considerazione discende che, semmai e in casi specifici, si è prevista una delegificazione per alcuni ambiti di interesse pubblico, affidando alla normazione secondaria la regolamentazione degli stessi, oppure confidando nella speranza che la emanazione di Testi Unici et similia fosse sufficiente a mettere ordine nel sistema.

E’ di tutta evidenza, però, che simili processi, con ambizioni di chiarificazione e perfino di nomofilachia, quand’anche abbiano oggettivamente semplificato l’approccio alla sfera dell’ attività umana implicata, purtuttavia non siano riuscite nell’intento di ridurre e/o organizzare ordinatamente il compendio di regole dal quale essa era e resta costituita e che genera le problematiche sin qui poste in luce.

Giunti a questo punto, un interrogativo si manifesta come ineludibile: cui prodest?

Indagare tale questione non è poi così complicato e presuppone una semplice, ma consapevole, riflessione sulle modalità, sulle finalità e sui soggetti coinvolti nel processo di normazione sin qui criticato.

La artata complicazione delle procedure mediante la creazione di imposizioni regolatorie è il prodotto di una consapevole, a volte incosciente, volontà di porre rimedio a problemi in ordine ai quali non vi è stato l’ impegno, ma neanche l’abilità, di rinvenire soluzioni politiche suscitate dalla concezione di interesse comune e dalla determinazione a realizzarlo.

Dinanzi a tutto ciò la soluzione migliore è spesso parsa quella di imporre regole e di creare articolati legislativi che sono, quasi sempre, l’esito di tortuosi percorsi compromissori.

Tale situazione sostenta e rafforza “l’apparato” cui si delega il compito di applicare le norme dopo averle interpretate, spesso con funzioni di supplenza rispetto alle funzioni della fonte dalla quale esse promanino.

Si comprende agevolmente allora, che in un contesto di tal fatta, non solo si sedimentino, ma addirittura si rafforzino posizioni egemoniche e di privilegio che finiscono per alimentare un sistema burocratico autoreferenziale, il quale ben si districa in un simile labirinto legislativo.

In altre parole, si concede ampia discrezionalità interpretativa a soggetti i quali, nell’ambito della propria sfera di competenza, si atteggiano a solerti impositori delle regole e sono in grado di rallentare, ostacolare o, perfino, impedire una pluralità di attività umane, che invece costituirebbero un notevole contributo al progresso di una comunità.

Intendo riferirmi alla innumerevole quantità di funzionari pubblici e, come ho già accennato, privati ai quali è demandata l’applicazione delle regole i quali invece, si profondono in personali esegesi delle stesse, arrivando finanche a snaturarne la ratio.

Ebbene, se ci trovassimo in un sistema razionalmente orientato i compiti e le attribuzioni di ciascuno apparirebbero chiari e definiti ed anche l’interpretatio iuris o legis, sarebbe agevole ed estremamente limitata se non addirittura pleonastica, giacché: in claris non fit interpretatio.

Viceversa, in un sistema disorganizzato ed irrazionale, nel quale i contrasti e le aporie normative sono una costante, l’interpretazione della norma diviene indispensabile e, non di rado, risulta tanto approssimativa e flessibile, quanto più debba piegarsi a soddisfare interessi particolari.

Mutuando dal Sommo Poeta si può sostenere a ragione che “Le leggi. son, ma chi pon mano ad esse?” (Dante La Divina Commedia – Purgatorio, XVI, 97)

Dunque, una volta promulgate le leggi, occorre vigilare che esse siano correttamente applicate ed affinché ciò avvenga esse devono (o meglio: dovrebbero) essere facilmente comprensibili, chiare, astratte e generali.

Oltre a ciò, esse dovrebbero essere logiche e non in contraddizione tra loro, evitando che si concretino conflitti, la cui soluzione viene demandata a funzionari i quali, troppo di sovente, assumono il ruolo che l’Ordinamento avrebbe riservato ad altri.

Orbene, non si può dubitare che un’eccessiva presenza di regole e precetti, per di più di non facile comprensione, la rigidità di un apparato burocratico impermeabile dinanzi alle difficoltà che esse causano, il costante rischio di trovarsi esposti a sanzioni, divengano intollerabili e creino una profonda disaffezione dei cives verso l’organizzazione pubblica e verso una normazione farraginosa, scomposta e soggetta a molteplici differenti valutazioni.

Oltre a quanto sopra, un sistema con criticità quali quelle testé evidenziate, si presta ad essere un humus ideale per lo sviluppo ed il proliferare di condotte criminose quali la corruzione, la concussione, la malversazione, l’abuso del proprio ufficio, anche sotto la forma dell’abuso di potere.

Ed allora, sembra ineluttabile l’esigenza di porre rimedio a tale stato di fatto, perciò da parte di molti si è invocato il ricorso alla c.d. Deregulation.

Con tale, ormai noto, termine di matrice anglosassone, si deve intendere un processo di snellimento di norme e regolamenti.

Tale istituto fu, inizialmente, ideato per regolare, nel pubblico interesse, determinati settori economici, di norma proprio settori di pubblica utilità, quali telefoni, gas, elettricità, acqua, trasporti, oppure servizi finanziari come banche e Borsa, od ancora mercati particolarmente sensibili, come il mercato del lavoro.

Ed infatti, è noto che tra la fine del 1970 e l’inizio degli anni ottanta acquisì un notevole rilievo, dapprima esattamente nei paesi di tradizione anglosassone, poi anche negli altri, un movimento che caldeggiava la deregulation, per porre un argine a ciò che veniva percepito come un eccesso di regolamentazione.

Ovviamente, il riferimento è diretto ad economisti come: Friedrich von Hayek e di Milton Friedman, ma soprattutto ad Alfred E. Kahn, i quali attraverso le loro tesi influenzarono le politiche di Jimmy Carter e Ronald Reagan.

Da una parte, gli ostacoli e gli impedimenti riconducibili alle prassi burocratiche erano percepiti come intrusivi ed eccessivamente onerosi per le imprese, dall’altra parte, lo sviluppo tecnologico aveva reso discutibili e contendibili quelli che sino ad allora erano considerati alla stregua di “monopoli naturali”.

Intendo riferirmi, a titolo di esemplificazione, proprio alle attività relative alle telecomunicazioni, alla gestione della rete elettrica, alla rete ferroviaria e via dicendo.

Il successo del fenomeno di snellimento normativo nei settori ove esso trovò applicazione persuase.

Verso la fine del Novecento, difatti, le classi dirigenti di diversi paesi reputarono che fosse necessario un progressivo ma inesorabile passaggio, in svariati settori di pubblico interesse ed in relazione a servizi di utilità collettiva, da uno “Stato produttore ” ad uno “Stato regolatore”.

Ciò, con riferimento agli ambiti testé presi ad esempio, indusse alla riconsiderazione della natura monopolistica delle precitate attività, evidenziando come conseguenza che la regolazione non fosse così imprescindibile e determinante in ogni contesto, perché la concorrenza nei settori sottratti al monopolio burocratizzato produsse effetti di riequilibrio anche degli aspetti di natura economica.

L’applicazione dei processi di deregulation avvenne, successivamente, anche attraverso le c.d. liberalizzazioni di diversi settori.

In fondo, deregulation e liberalizzazioni possono essere considerate in guisa di due fenomeni paralleli con finalità assai simili ed entrambe rispondo alla necessità di svincolarsi da “pastoie burocratiche o capestri normativi” preesistenti e costituiti dall’insieme di regole che erano state imposte dal potere pubblico o addirittura da vincoli congeniati originariamente da corporazioni o compagini sociali organizzate e con propri fini.

Ebbene, se l’affrancamento dalle tortuosità di natura regolamentare è stato possibile in ampi settori afferenti alle attività economiche, le cui dinamiche presentano indubbie complessità, altrettanto potrebbe e sinanco dovrebbe avvenire in molteplici ulteriori ambiti di pubblica rilevanza.

Mi pare, allora, ragionevolmente sostenibile, naturalmente mutatis mutandis, la necessità di profondere il massimo impegno affinché sia sensatamente avviato un processo di semplificazione normativa che liberi i cives dalla percezione di impotenza che assai di sovente li affligge dinanzi alla iperfetazione normativa cui sopra ho fatto riferimento.

Con ciò non intendo minimamente sottovalutare l’importanza del corpus di leggi che disciplinano la convivenza sociale e ne garantiscono la stabilità e la pacifica attuazione, né tanto meno reputo corretto sminuire il valore degli apparati di cui l’organizzazione dello Stato si è doverosamente dotata.

Si tratta, invece, di razionalizzare i processi di produzione normativa, snellire le procedure, agevolare la comprensione delle regole in favore di coloro i quali ne siano i destinatari, insomma si tratta di semplificare, di eliminare ciò che è oramai obsoleto, superato e ridondante.

Occorre, in buona sostanza, la concretazione di un costante processo di razionalizzazione ed ottimizzazione delle leggi.

Non può, francamente, recarsi in dubbio che un numero essenziale di leggi comprensibili, chiare e facilmente interpretabili appaia più giusto e meritevole di ossequio rispetto ad un coacervo di disposizioni che finisce con il divenire difficilmente assimilabile per gli stessi operatori del diritto.

Non sono, a dir la verità, mancati i tentativi di pervenire al raggiungimento di tali obiettivi, mutuando da esperienze quali quella della deregulation innanzi descritta.

Eppure, malgrado tali apprezzabili sforzi, in minima parte anche riusciti (mi corre il pensiero a provvedimenti di semplificazione dei quali si fece promotore il Prof. Franco Bassanini, ma anche ad altre iniziative), molto spesso le buone intenzioni si sono infrante contro una inesorabile barriera di resistenze opposte da un “potere” che, radicato e costituito come tale, ha ostacolato, come tutt’ora ostacola, ogni processo evolutivo e di razionalizzazione delle leggi, contribuendo esso stesso alla loro redazione e finendo con il creare perniciose distonie.

Ciò ha consentito da una parte che continuassero a moltiplicarsi i passaggi nello svolgimento delle pratiche burocratiche pubbliche e dall’altra che si accrescesse il numero dei soggetti in grado di esercitare un ruolo di potere sulla loro definizione, con la conseguenza che le responsabilità circa le stesse rimanessero diluite e, tutto sommato, difficili da ascrivere.

Quanto sopra pone come inevitabile corollario che il rischio di corruzione sia concretamente e simmetricamente aumentato con il proliferare degli intralci procedurali.

Ebbene, tutto questo sollecita l’attenzione sul paradosso che ne discende, ossia quello consistente nell’illusione che la complicazione delle procedure, il moltiplicarsi delle regole, l’accrescimento dei controlli e delle “supervisioni”, siano in grado di per se stessi di arginare o, addirittura, eliminare i fenomeni corruttivi di cui sopra, mentre, viceversa, tutto ciò alimenta tali fenomeni. E non di rado, malauguratamente.

Avviandomi ad ultimare queste mie riflessioni, credo di poter affermare con cosciente certezza, derivantemi da quella che in antropologia culturale viene definita come “l’osservazione partecipante” frutto di una ricerca sul campo, che sia urgente ed auspicabile pervenire ad un drastico superamento di un sistema di produzione normativa ormai obsoleto e farraginoso e, come ho innanzi evidenziato, spesso non solo difficilmente fruibile da parte di coloro che dovrebbero trarne beneficio, ma vieppiù causa di molteplici danneggiamenti di costoro.

Proprio mediante tale convinto augurio concludo, confidando in un intervento riformatore che vada concretamente nel senso appena auspicato.

Rolando Grossi