Riflessioni intorno al ruolo dell’etica nell’impresa
In questo periodo mi è capitato di sfogliare pagine di giornali, di imbattermi in annunci pubblicitari on line, o di vedere personalmente, durante gli acquisti quotidiani, proposti in vendita, prodotti necessari più che in passato, i quali presentavano la peculiarità di denunciare una variazione dei prezzi di alienazione fortemente cresciuti.
Oggetti, beni, prodotti e servizi di notevole utilità sociale, o addirittura di inequivocabile necessità.
Tali beni e servizi, sino a poco tempo fa, fino, cioè, al periodo antecedente alla difficile e drammatica contingenza che il mondo intero ha vissuto e sta vivendo tutt’ora, avevano costi, a volte già alti in relazione al loro reale valore d’uso o di scambio, sebbene sopportabili per la gran parte di coloro cui erano destinati.
Oggi la situazione è mutata e purtroppo in peggio.
Perché ciò è potuto accadere e storicamente è già accaduto in passato, all’indomani di gravi eventi che hanno sconvolto la società ?
Questo fenomeno, di per se lecito, legittimo e non reprimibile, se non correndo il rischio di limitare la libertà personale e di impresa è, tuttavia, un modello al quale ci si deve adeguare?
La nostra società moderna, evoluta, interconnessa ed in grado di scambiare con rapidità ed agevolezza ogni genere di comunicazione, bene o servizio non può o, forse, non deve controllare la predetta dinamica?
Esiste la possibilità e, soprattutto, si sente la necessità di riportare al centro delle attività umane, tra le quali quelle d’impresa, la persona invece del mero profitto per l’imprenditore del caso?
Si potrebbe obiettare che l’economia reca con se le proprie leggi, alle quali occorre dare riscontro e tra esse vi è certamente quella della indispensabilità di creare il massimo possibile di profitto.
Ed allora occorrerebbe chiedersi se la sacrosanta produzione del profitto e le legittime ragioni dell’economia stessa possano essere perseguite sottendendovi anche una condotta “etica”.
Ebbene, senza entrare nei temi più propri all’economia o all’economia politica, vorrei tentare di offrire una riflessione sull’argomento.
Su di esso, come su innumerevoli altri, il grande filosofo, scienziato e pensatore greco Aristotele fu un precursore dei tempi.
Egli operò una distinzione significativa tra il termine oikonomia, ovvero “beni di famiglia” ( οἶκος e νόμος) e cremastica, ovvero “ricchezza” (κρῆμα).
Aristotele pensava che le connotazioni positive o negative cui ricondurre i due termini dipendessero esclusivamente dall’uso che se ne faceva.
La produzione di beni e di ricchezza, secondo il pensiero aristotelico, doveva essere finalizzata a soddisfare le esigenze sia del singolo che della comunità.
Da ciò egli faceva discendere quale conseguenza necessaria che “perdere il senso del limite e cercare di accumulare ricchezze in modo smisurato, senza limiti, comporta un agire che non consente di realizzare la vita buona, perché ciò che è mezzo diviene fine” (cfr. Aristotele, I Politica).
Mi pare sia corretto affermare che il pensiero di Aristotele abbia contribuito a fondare uno dei primari approcci teorici all’economia politica.
Egli, inoltre, per primo teorizzò la differenza tra il “valore d’uso” ed il “valore di scambio”, concezione questa che concorse a stabilire una delle prime teorie del valore dello scambio nella storia dell’economia.
In buona sostanza, Aristotele chiarì come per “valore d’uso” dovesse intendersi esattamente il valore intrinseco di una merce derivante dal consumo da parte dell’uomo, mentre il “valore di scambio” fosse quel valore della merce che si concretizza effettivamente sul mercato tra il venditore e l’acquirente.
Il grande filosofo precisò anche in cosa consistesse il valore di scambio, individuandolo nel ristoro che l’alienante ottiene in misura adeguata rispetto al valore dei beni che cede attraverso la vendita.
Da tale concezione si desume, altresì, la c.d. “teoria del giusto prezzo”.
Naturalmente non può sfuggire come l’approccio aristotelico all’economia politica non prescindesse da considerazioni di carattere etico.
Nell’ambito di una riflessione circa una tematica tanto vasta quale quella dell’etica in economia, ovviamente, esigenze di sintesi mi inducono ad operare un balzo in avanti di notevole ampiezza, giungendo a porre l’attenzione, in modo altrettanto essenziale, sul filosofo ed economista scozzese Adam Smith, il cui pensiero e le cui concezioni hanno inequivocabilmente influenzato quelle di pressoché tutti gli studiosi della disciplina, tanto da indurre a considerarlo il fondatore della scienza economica.
Nel suo sistema teorico egli evidenziò i benefici assoluti dell’ordine naturale e delle inclinazioni naturali dell’uomo, che secondo Smith sono spesso compresse ed alterate dalle istituzioni umane.
A parere dell’economista scozzese, gli uomini indirizzano il loro comportamento secondo diversi “impulsi”, tra i quali: “egoismo, esigenza di libertà, simpatia (nel senso etimologico del termine) e tendenza al baratto”.
Sono tali “impulsi” che consentono agli uomini di individuare proprio quello che corrisponde al loro interesse, da ciò discende l’esigenza che essi siano posti nelle condizioni di realizzarli come meglio credono.
Diversamente da Aristotele, Smith riteneva che laddove gli uomini perseguissero i propri interessi personali, implicitamente, contribuissero alla realizzazione del bene di tutti.
Secondo il grande economista, infatti, esiste un “ordine naturale” che consente ai singoli di contemperare l’egoismo con altri sentimenti, tra i quali la “simpatia” intesa, per l’appunto, come sentire comune.
Da tale considerazione e fede nell’anzidetto “ordine naturale”, egli desunse che ogni individuo, nel momento stesso in cui miri a soddisfare il proprio particolare interesse è “spinto da una mano invisibile a promuovere un fine che non era stato previsto dalle sue intenzioni”, questo fine è esattamente “il bene comune”.
Egli aggiunse, inoltre, quale corollario a quanto precede, una sua emblematica sensazione espressa nei seguenti termini: “non ho mai avuto occasione di constatare il bene fatto da coloro che affermano di operare per il benessere comune”.
Naturalmente le poche frasi dinanzi riferite sottendono ad una filosofia etico-sociale destinata ad avere conseguenze economico-politiche rimarchevoli.
Ed invero, ad avviso del filosofo-economista, alla libertà di ciascuno di operare per conseguire il massimo profitto, contribuendo così anche al bene comune, deve corrispondere il maggior contenimento possibile dell’intervento dello stato nella società.
L’ingerenza statale deve limitarsi, pertanto, alla difesa, alla somministrazione della giustizia ed alle opere pubbliche, senza mai travalicare queste sfere di competenza, pena l’alterazione degli equilibri garantiti dall’ordine naturale.
In buona sostanza si può affermare che la concezione socio-economica di Smith coincidesse o, quantomeno, accettasse la teoria del laisser faire.
Altra importante peculiarità del pensiero di Smith risiedeva nella sua convinzione che il mercato stesso rappresentasse il mezzo attraverso il quale fosse possibile coordinare gli interessi dei singoli, al fine di concretare la cooperazione fra individui, sulla quale, dal suo punto di vista, si fonda qualsiasi sistema economico.
Mi sembra possa condividersi l’opinione secondo cui la filosofia liberista, insita nella visione del grande economista, il quale riconosceva ed affermava già allora anche i vantaggi degli scambi internazionali, costituisca il punto di partenza del pensiero economico moderno.
Dal breve excursus che precede e che ho ritenuto utile compiere, è dato evincersi come già nel passato si percepisse la necessità che nell’ambito di condotte di carattere economico non venissero tralasciati gli aspetti etici.
Considerazione che vale la pena di approfondire ulteriormente.
Ritengo, in verità, che il necessario sforzo per il superamento di ogni crisi economica quale, ad esempio, proprio quella che stiamo attraversando e che ci vedrà impegnati per molto tempo, non possa prescindere dal tentativo di tornare a conciliare etica e profitto d’impresa.
Del resto, occorrerebbe rammentare che le imprese prima ancora di essere enti finalizzati al raggiungimento del massimo profitto, abbiano una loro funzione sociale.
Solo per avere un termine di paragone che funga da riscontro a quanto credo sia ragionevolmente sostenibile, si ponga mente agli istituti bancari.
E’ noto come tali enti siano sorti con intenti di natura solidaristica e di mutualità, mi riferisco ai Monti di Pietà o alle Società di Mutuo Soccorso.
Ebbene, non si può nascondere che quegli enti avessero posto al centro delle loro priorità l’ausilio alle persone e non il mero profitto.
Il modello “imprenditoriale” per quello che oggi definiremmo, con un pessimo mutamento di funzione lessicale delle parole, come il “fare banca” consisteva nel perseguire lo sviluppo di una collettività.
Mi pare non possa negarsi che oggi tale modello abbia perso attrattiva per le istituzioni bancarie, per le quali l’obiettivo della loro azione imprenditoriale è quello della massimizzazione del guadagno.
A tale scopo, non di rado, si sono utilizzati strumenti finanziari definiti “creativi”, con modalità operative ed esiti non sempre felici ed edificanti.
Ovviamente e malauguratamente a pagare le spese dei fallimenti di una siffatta innovazione finanziaria e creatività sono state proprio le imprese, le famiglie, le persone che sono venute a trovarsi travolte da crisi economiche che hanno sconvolto la vita di moltissime di esse.
Ciò non si può e non si deve, a parer mio, giustificare semplicemente attraverso la considerazione che la società sia fortemente mutata col tempo ed abbia reso necessario il cambiamento anche delle dinamiche economiche e finanziarie.
Sono convinto, infatti, che se si fosse operato nell’alveo di una finanza “etica”, in cui la spregiudicatezza e l’avventatezza finalizzata all’esclusivo conseguimento dell’utile e, magari, del “bonus” per manager “creativi”, fossero state stigmatizzate e tralasciate, il sistema dell’economia reale ne avrebbe tratto un enorme beneficio.
Mi sembra, dunque, che sia divenuta indifferibile l’esigenza di recuperare anche nei contesti economici ed imprenditoriali, una prospettiva in cui si ponga quale centro primario degli interessi la persona e non il profitto.
Quest’ultimo, di certo, deve delineare il metro dell’oggettiva efficienza in materia di affari, ma non il solo ed unico fine e neanche il più importante.
Nella realtà economica attuale, invece, i prevalenti modelli d’impresa si fondano sul criterio della massimizzazione del profitto, trascurando ordinariamente molti altri aspetti che contribuiscono decisivamente al funzionamento di un’azienda quali, per esempio, gli essenziali rapporti con i clienti o quelli ancor più importanti con i dipendenti.
Chiaramente la funzione del profitto, purché non lo si consideri come un “totem”, rimane assolutamente rilevante, ciononostante essa non può essere sovrastimata tanto da indurre a ritenerla l’unica che conti nella vita dell’impresa.
A dire il vero, a me pare che l’impresa, il cui management abbia quale unico obiettivo il maggior introito, sia destinata a logorarsi e prima o poi ad entrare in crisi.
In contingenze quali quelle attuali, a mio modo di vedere, le imprese devono sviluppare processi produttivi che riservino la maggior attenzione possibile verso il cliente, nonché una decisa propensione a formare personale (ad ogni livello) ben motivato e convenientemente incentivato, cosicché esso si senta tanto parte dell’azienda, da essere persino incline ad accettare sacrifici per il funzionamento della stessa.
L’impresa, quindi, sebbene debba certamente garantire agli imprenditori o agli azionisti un’organizzazione in grado di raggiungere guadagni adeguati a remunerare i rischi che questi sopportano e che sono connaturati a tale attività, tuttavia deve tenere nel giusto conto anche molteplici e diversi interessi interni ed esterni (non solo economici e legati ai profitti), così da avere il giusto approccio alla risoluzione di eventuali conflitti che dovessero insorgere.
Un’impresa orientata nel senso cui testé ho fatto riferimento, da un lato si inserisce perfettamente nel mercato, mentre dall’altro lato rappresenta un ente integrato nell’ambiente in cui opera, in grado di essere efficiente e portatore di un proficuo valore etico.
Orbene, penso che proprio la sensibilità verso un orientamento anche etico della importante e complessa attività d’impresa possa fungere da trait d’union tra le due funzioni sopra delineate, ovvero quella economica e quella sociale, contribuendo a costruire imprese maggiormente preparate ad affrontare crisi economiche.
In molti sostengono, credo a ragione e con lungimiranza, che essere un manager etico equivalga a riuscire a tenere insieme ed a far convivere nel miglior modo possibile la parte che genera ricchezza per l’impresa e quella che genera ricchezza per la società̀ in generale.
Da ciò discende che la morale non vada interpretata come un limite, tutt’altro, essa può fungere da sprone e fornire una carica creativa.
Ed allora, non solo profitto, bensì anche obiettivi che includano il valore del capitale umano, che contemplino l’importanza della sostenibilità ambientale, che fissino la rilevanza dei progetti e che siano pure il frutto di una meditazione circa un’etica sempre nuova applicata all’economia attuale.
Quando nel 1970 il fondatore del pensiero monetarista, ossia il premio Nobel per l’economia Milton Friedman, si manifestava contrario all’introduzione delle teorie economiche che auspicavano l’inserimento nei bilanci delle imprese anche di aspetti relativi al rispetto per l’ambiente, alla trasparenza della governance, al riguardo per i territori e per le comunità, dichiarando che “l’unica responsabilità sociale di un’azienda è fare profitti”, dal mio punto di vista, si attestava su posizioni che già allora erano opinabili e che nel contesto odierno non appaiono condivisibili.
Senza voler operare, nella presente occasione, un’analisi approfondita intorno alle diverse interpretazioni del capitalismo, credo sia innegabile che almeno negli ultimi cinquant’anni esso abbia giocato un ruolo determinante nel migliorare le condizioni economiche di circa un miliardo di persone, liberandole dalla povertà.
La progressiva evoluzione del sistema sanitario e delle cure mediche, l’ideazione di tecnologie digitali che hanno trasformato la vita delle persone in tutto il mondo, il maggior accesso all’istruzione, la ricerca, l’innovazione e molti altri vantaggi sono direttamente connessi a tale sistema economico.
Tuttavia al capitalismo moderno sono ascrivibili anche pesanti responsabilità in ordine a sperequazioni economiche, ad ingenti indebitamenti non solo di singoli, ma pure di stati, alla creazione di strumenti finanziari che non hanno alcun valore sociale, all’uso insostenibile di risorse fisiche e naturali destinate ad esaurirsi e così via.
Malgrado ciò sembra sia molto arduo trovare alternative adeguate ad esso, visti i risultati non certo brillanti delle diverse forme sperimentate finora.
Si tratta, allora, di intervenire sui processi sottesi al sistema capitalistico, recuperando e connettendovi valori etici.
Nell’affermare con convinzione quanto precede, non intendo pormi in un’ottica di utopistico auspicio, ma desidero, viceversa, riferirmi a concreti esempi di imprenditori i quali, già da molto tempo, hanno intrapreso la strada del c.d. business ethics, ovvero etica degli affari.
Tra essi, mi sembra, attuale, pregevole e di notevole attrattiva l’esperienza pratica di Brunello Cucinelli, che egli stesso ha definito del “capitalismo umanistico”.
Le interessanti parole dell’unanimemente ammirato e stimato imprenditore perugino delineano la sua visione: “Immagino il capitalismo umanistico come una grande armonia entro la quale il profitto, il dono, la custodia, la dignità della persona umana e l’etica della verità vivono nel reciproco arricchimento”.
Parole che hanno il senso di un manifesto concettuale per un nuovo modo di interpretare il capitalismo e fare l’imprenditore, incentrato sul valore riconosciuto alla persona e sul principio della “crescita garbata e profittabilità sana”.
La brillante sperimentazione costituita dall’azienda di Brunello Cucinelli non è, fortunatamente, un caso isolato, ma essa rappresenta indubbiamente l’esempio del successo di un modello imprenditoriale che affonda le radici nel passato e valuta l’etica in guisa di un quid pluris .
Adriano Olivetti, Diego Della Valle, Oscar Farinetti o Marco Bartoletti, il quale predilige assumere dipendenti con problemi di salute, disabilità o tossicodipendenza, sono solo alcune dimostrazioni di come nel corso degli anni si sia potuto, coraggiosamente e con grande senso di umanità e sensibilità verso la persona e verso l’ambiente, sviluppare con successo e profitto un’attività imprenditoriale eticamente indirizzata.
A tal proposito, degna di nota è l’iniziativa della società Dow Jones che fornisce il famoso indice azionario, la quale ha realizzato un apposito indice etico il Dow Jones Sustainability Index. Esso si fonda sulla performance sociale delle imprese che adottano standard etico-sociali.
Ebbene, proprio dall’indagine relativa a tale indice si evince come le imprese che realizzano le migliori prestazioni sociali, risultino, allo stesso tempo, fiorenti economicamente ed assai concorrenziali.
In tale prospettiva un’impresa congeniata per soddisfare canoni di etica dei comportamenti, nei termini appena individuati, produce profitti e migliora il proprio benessere interno in funzione della maturazione di una nuova reputazione, della quale viene a godere.
Senza dubbio ciò costituisce una delle ragioni per le quali la c.d. “questione etica” interroga prepotentemente e stimola il mondo dell’economia, nonché evidenzia il bisogno di istituire ed incoraggiare imprese che, sebbene siano predisposte per tutelare scrupolosamente gli interessi diffusi dei loro “stakeholders” (nell’accezione più ampia del termine), purtuttavia si caratterizzino per essere organizzazioni eticamente responsabili.
La complessa tematica, ovviamente, ha da molto tempo suscitato la riflessione di diverse Istituzioni, tra le quali l’Unione Europea che nel 2001 ha concepito e presentato un “Libro Verde”, il cui titolo rappresenta già di per sé stesso un programma: Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese (Bruxelles, 18.7.2001 COM-2001 366).
Avviandomi a concludere queste mie brevi riflessioni, mi sovvengono alla mente ancora una volta gli interrogativi, che hanno costituito l’incipit delle medesime, circa i diversi criteri che si possono adottare per esercitare l’impresa e produrre profitto.
Mi pare sia concepibile compendiare il senso delle articolate argomentazioni che precedono, attraverso le seguenti sintetiche deduzioni.
E’ certamente appropriato riconoscere la necessità e persino l’indispensabilità, intrinseca all’attività imprenditoriale, ma anche al sistema economico e finanziario nel suo complesso, di perseguire il profitto.
Esso, infatti, è innegabilmente un indicatore di salute dell’impresa e non è un male.
L’utile, pertanto, non va né demonizzato, né tantomeno deve essere visto come un obiettivo pernicioso quello di prefiggersi il suo raggiungimento.
Tutt’altro.
La questione, perciò, si trasferisce su un altro piano, ossia quello delle priorità.
Da queste ultime, ne sono persuaso, non possono essere esclusi valori imprescindibili tra i quali, in primis, quello da attribuire alla persona, cui si accompagna la sensibilità verso l’ambiente e quanto altro ho in precedenza sottolineato.
Parimenti e coerentemente con il ragionamento sin qui seguito, sono fermo nel pensare che vadano stigmatizzate con vigore quelle condotte spregiudicate e speculatrici poste in essere dalle c.d. “imprese squalo”, fulminee nell’approfittare di qualsivoglia occasione si presenti loro, anche la più tragica o drammatica, per realizzare mero profitto, senza riguardo all’eventuale detrimento di interessi comuni.
Francamente, non mi sento di ritenere “giusto” un tornaconto acquisito in modo siffatto.
A mio avviso, insomma, un auspicabile ed attuale modello di impresa evoluta credo sia, senza esitazione, quello in cui le scelte etiche, eziologicamente connesse all’affermazione della propria immagine e reputazione, siano percepite come imperative e vincolanti, purtuttavia senza abdicare al ruolo peculiare della stessa.
In una prospettiva in tale senso orientata, l’utile non può che essere “il giusto profitto”.
Affido, infine, la conclusione di questo mio scritto alle illuminanti e conferenti considerazioni del grande pensatore tedesco Immanuel Kant, il quale nella sua indimenticata e preziosa opera, “Fondamenti della Metafisica dei Costumi”, già nel 1785 raccomandò : “Agisci in modo da trattare l’umanità, tanto nella tua persona quanto nella persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai unicamente come un mezzo”.
Rolando Grossi