ESSERE DIVERSAMENTE UMANI

Siamo forse giunti ai limiti della tollerabilità o, forse, li stiamo raggiungendo?

C’è da chiederselo.

Gli avvenimenti che si susseguono, ormai, con una allarmante frequenza debbono indurre tutti, indipendentemente dalle proprie posizioni politiche, filosofiche, ideologiche, economiche e sociali, ad operare una profonda riflessione.

Per quanto mi riguarda, con preoccupazione ed anche apprensione, ho più volte rivolto l’attenzione verso atteggiamenti, esternazioni, studi sedicenti scientifici o perfino teorizzazioni e legislazioni che entrano a far parte di dibattiti, non solo pubblici, con troppa reiterazione.

Ed allora, forse, è proprio il caso di prenderne atto ed iniziare a sviluppare una seria e costruttiva ponderazione.

La tematica cui intendo riferirmi è quella della discriminazione, nella sua accezione più negativa.

Essa, che ritengo senza ombra di dubbio od esitazione, una vera e propria patologia di ogni sistema di convivenza sociale, viene non di rado più o meno consapevolmente spinta a conseguenze ancor più estreme sino a sfociare nel razzismo, nel sessismo, nell’omofobia, nel fanatismo religioso, nell’antisemitismo e via dicendo.

Molteplici e disparate sono le forme di discriminazione che vengono quotidianamente concretate, sottese ad esse vi sono inquietanti spiegazioni sorrette, di sovente, da concezioni che solo eufemisticamente si potrebbero definire aberranti.

Vorrei, dunque, tentare di analizzare il fenomeno da un punto di vista che sia il più razionale possibile per giungere ad evidenziarne le motivazioni, rectius, le cause.

Come non raramente mi accade di fare nell’affrontare tematiche impegnative quale quella che mi accingo ad approcciare, un indispensabile ausilio mi proviene da discipline quali la storia, la filosofia, la linguistica ed altro ancora, anche in questo caso quindi non farò eccezione.

Discriminazione è un termine che deriva dal latino, nel cui lessico il verbo “discrimine” sta a significare separare, distinguere, fare una distinzione, di conseguenza “discrimen” designa una distinzione.

L’etimologia del lemma, quindi, ci offre contenuti che non hanno alcun aspetto intrinsecamente negativo.

Detto ciò, interessanti indagini storico-linguistiche hanno posto in evidenza come l’utilizzo del termine discriminare nel prevalente e deplorevole senso oggi diffuso ed usuale sia riconducibile al lessico anglosassone a partire dal XVII secolo.

L’ambito in cui la locuzione ha trovato riscontro interpretativo nell’accezione in cui, oramai, lo si intende è purtroppo quello delle condotte e degli atteggiamenti sociali.

In tale sfera la discriminazione tratteggia un comportamento che genera differenti apprezzamenti, valutazioni, giudizi e considerazioni, caratterizzandoli mediante distinzioni e disparità, in un modo tale che alcuni individui vengano trattati in guisa peggiore di quella in cui altri lo siano solitamente.

E ciò solo in ragione dell’appartenenza ad un particolare gruppo o classe sociale, ad una categoria, ad un ordine, ad una posizione, ad un genere o, ancor peggio, ad una “razza”.

Un simile modus agendi, deprecabile ed intollerabile ma certamente non isolato e raro è peculiare di un gruppo sociale predominante, il quale individua un proprio precipuo interesse e forsanche una propria necessità nel limitare l’accesso ad opportunità, privilegi e perfino a diritti dei membri di un gruppo sociale minoritario.

In tal modo il gruppo maggioritario intende garantirsi la disponibilità di vantaggi dalla fruizione dei quali escludere le persone ed i gruppi sociali di entità minore o, comunque, più fragili, adottando decisioni d’imperio ed adducendo troppo di sovente giustificazioni che sono connotate da discutibile razionalità, nonché da scarsa e totalmente insufficiente umanità.

A questo punto e prima di approfondire l’analisi si impone una precisazione.

Quanto testé evidenziato non deve sorprendere laddove si verifichi in contesti in cui le tradizioni storico-culturali, politiche, sociali o religiose affondino le loro radici in concezioni della convivenza sociale che si basano proprio sulle differenziazioni tra le persone o tra insiemi di esse.

In molte realtà del nostro pianeta le pratiche “discriminatorie” sono addirittura ritenute corrette, indispensabili e sono consacrate in leggi, regolamenti, atti normativi, precetti vincolanti di diversa natura, ma che in ogni caso assoggettano le persone che costituiscono quel tessuto sociale.

A titolo meramente esemplificativo e senza alcuna pretesa di esaustività, il pensiero mi corre al sistema delle “caste” già tipico dell’India che, sebbene abolito nel 1950, ancora oggi influenza sia il mondo del lavoro che gli equilibri del potere in quello sterminato e complesso paese, in cui i Dalit o quinta casta (i c.d.Paria), che Ghandi definiva “figli di Dio”, sono tuttora totalmente discriminati.

Od ancora, penso al modo in cui le donne vengono abituate (o forse indotte) a comportarsi, anche nei loro costumi, in una grandissima parte del mondo, non solo islamico, benché il dibattito su quest’ultimo sia molto attuale.

Ebbene, sinanco in Paesi in cui il tasso di scolarizzazione, il grado di cultura ed il livello di benessere siano molto elevati, non raramente si segnalano discriminazioni fondate sul genere sessuale.

Fenomeni quali il c.d. “sticky floor”, inteso come la difficoltà delle donne a compiere carriere ed a percepire compensi al pari dei loro colleghi uomini, sono malauguratamente attualmente persistenti.

Induce, inoltre, ad operare una seria riflessione la circostanza che ancora nel 1979, con entrata in vigore il 3 settembre del 1981, l’O.N.U. ritenesse indispensabile l’emanazione della “Convenzione sulla eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna” (CEDAW) sottoscritta da 189 Paesi, la quale costituisce un trattato internazionale motivato dalla necessità di fornire tutela ai diritti delle donne, tra i quali quello al suffragio.

E si potrebbe andare avanti enumerando ulteriori esemplificazioni connesse alle molteplici diverse culture.

Naturalmente l’insegnamento ed il monito che provengono dall’antropologia culturale e dagli interessantissimi approfondimenti e risultanze che da essa discendono induce ad usare cautela nel formulare giudizi od anche dall’esprimere semplici opinioni in assenza di esperienze dirette o conoscenze specifiche.

Chiarito doverosamente quanto sopra, anzitutto con l’intento di riaffermare il rispetto per ogni cultura diversa da quella che mi appartiene, sebbene possa non condividerne una pluralità di aspetti, vorrei concentrarmi sulla tematica che più mi sta a cuore, ovvero quella attinente alla discriminazione rispetto a chi è o appare diverso sotto certuni punti i vista, non ultimo il modo di pensare ed agire.

Ebbene, a far tempo dal periodo della guerra di secessione americana nel linguaggio anglo-americano il lemma discriminazione è stato utilizzato correlandolo direttamente al trattamento pregiudizievole ai danni di un individuo esclusivamente fondato sulle differenze.

Queste possono essere di “razza” od etnia, ma anche di appartenenza ad un determinato gruppo, comunità o categoria sociale che viene contrassegnato come “indesiderato”, “sgradito” o il più delle volte “non normale”, rendendo con ciò agevole concretare diverse forme di oppressione ed emarginazione.

In altri termini, si giunge a riconoscere qualcuno così radicalmente “strano” e “diverso” (inferiore od inapprezzabile) rispetto a se stessi che viene ritenuto lecito, od almeno accettabile, trattarlo in modo discriminatorio, sino a scadere in comportamenti inumani e degradanti.

Ciò denuncia, da parte di chi discrimina, un’evidente necessità di distinguersi positivamente rispetto al “diverso”, sino a stabilire presunte gerarchie tra gruppi sociali, ove un gruppo si consideri migliore o, perlomeno, “superiore” agli altri.

Da quanto sopra discendono, evidentemente, molteplici conseguenze riprovevoli, ma in particolar modo si attua una inaccettabile disparità di trattamenti tra persone in assenza di giustificazione razionalmente e, soprattutto, umanamente plausibile.

Tuttavia, non può sottacersi che il criterio per individuare ciò che sia o non sia discriminatorio non si possa legare semplicemente al consenso sociale, perché esso è suscettibile a variazioni continue nel tempo, alle visioni politiche, ai mutamenti della società.

In ogni caso, il tema assume sempre un maggior rilievo e sono molti ed importanti gli interventi che storicamente e politicamente si sono succeduti per porre un argine alle condotte discriminatorie maggiormente riprovevoli ed intollerabili.

Le esigenze di sintesi che connotano questo mio scritto mi convincono ad esaminare solo alcuni considerevoli provvedimenti.

Di indubbio valore e dotato di notevole peso, internazionalmente riconosciuto, è la “Dichiarazione universale dei diritti umani”.

Essa venne redatta e adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre del 1948 al fine di sancire tassativamente che: “ogni individuo ha diritto a tutti i diritti e le libertà stabiliti nella presente Dichiarazione, senza alcuna distinzione di qualsiasi tipo, come la “razza”, il colore della pelle umana, il sesso, la lingua, la religione, l’opinione politica o di qualsiasi altra natura, l’origine nazionale o sociale, la proprietà privata, la nascita o altro stato di appartenenza”.

Non v’è dubbio e giova rimarcarlo, che il Consesso dell’O.N.U., memore della tragedia rappresentata dall’esperienza Nazista e totalitaria appena superata con dolore, percepisse la necessità di intervenire avverso pratiche drammaticamente disumane delle quali proprio il Terzo Reich si avvalse, non raramente, per consolidare il proprio status di regime dittatoriale.

In esso, infatti, le prassi discriminatorie a carattere razziale (contro ebrei, polacchi, slavi, zingari e chiunque altro non fosse gradito), o fondate sulle preferenze sessuali (omofobia), od ancora basate sulle opinioni politiche dissidenti furono un leit motif.

E’ del 1950, invece, la “Dichiarazione sulla razza” (UNESCO), che viene ritenuto il primo documento ad aver negato ufficialmente la correlazione tra la differenza fenotipica nelle razze umane e la differenza nelle caratteristiche psicologiche, intellettive e comportamentali.

Risale, inoltre, al 21 dicembre del 1965, per entrare in vigore il successivo 4 gennaio del 1969, la “Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale” (ICERD), mediante la quale si è inteso porre le basi affinché i membri della stessa si attivassero per l’eliminazione di detta discriminazione.

Di notevole rilievo è, poi, la “Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità”, trattato mirante ad ottenere la protezione, la promozione, la garanzia e la fruizione a livello internazionale dei diritti umani, con particolare riguardo alle persone con disabilità, nonché l’uguaglianza dalle medesime dinanzi alla legge. Il testo è definitivamente entrato in vigore il 3 maggio del 2008.

Tra gli ulteriori ambiti in cui le discriminazioni trovano un terreno fertile e che si prestano a pericolose strumentalizzazioni, plagi, suggestioni e perfino esaltazioni vi è, senz’altro, quello delle credenze religiose.

Ciò, a dire il vero, mi è sempre parso oltremodo immotivato e privo di fondamento o giustificazioni e laddove si sia provato a fornirne, queste sono risultate irrazionali e troppo spesso contrarie al sentimento stesso che la fede dovrebbe suscitare.

Eppure sotto il profilo storico le religioni, volendo ammettere che si possa differenziare la fede sul solo presupposto, meramente umano e formale, dell’adozione di diverse ritualità o di una differente visione metafisica del senso della vita, sono state impiegate quali pretesti per forgiare disuguaglianze, per cagionare ostilità e gravi contrapposizioni che sventuratamente, in non sporadici casi, hanno consentito ad individui, gruppi od organizzazioni di scadere in fanatismi e concitazioni che hanno finito col generare esiti devastanti.

Tali derive sono esattamente agli antipodi del messaggio di pace, condivisione e comprensione per la stessa umanità, al servizio della quale l’autentico sentimento religioso dovrebbe porsi.

Anche in questo caso potrei proseguire a lungo con l’enumerazione delle forme di discriminazione ed i relativi provvedimenti delle diverse autorità ed organizzazioni, che hanno tentato e tentano di porvi limiti e rimedi ma, ovviamente, dovendo essere il più possibile conciso, devo limitare l’analisi ai fenomeni che maggiormente preoccupano.

Tra essi vi è, oltre ogni dubbio, l’esecrabile, odioso ed insopportabile fenomeno del razzismo.

Termine composito che trae origine dal latino generatio (o ratio), ossia natura, qualità congiunto al suffisso ismus, cioè “classificazione, categorizzazione”.

Vi è, però, chi ritiene derivi dal vocabolo francese haraz (razza).

La discriminazione razziale, in ogni caso, consiste essenzialmente nella convinzione preconcetta, frutto di ignoranza e di paure, che il genere umano, la species homo (abilis, sapiens, sapiens sapiens ecc.), possa essere suddivisibile in razze che abbiano una effettiva distinzione di carattere biologico.

A tali differenziazioni si finisce col connettere diverse capacità intellettive, diverse percezioni di valori umanamente rilevanti, diverse sensibilità etico-morali.

In ragione di tutto questo si assume che una determinata, presunta, formazione razzialmente circoscritta possa o addirittura, nei casi più pericolosamente estremi, debba essere ritenuta “superiore od inferiore” ad un’altra.

Naturalmente le teorizzazioni di tal fatta sono state indiscutibilmente confutate proprio dai numerosi ed, a questo punto pacifici, studi ed approfondimenti che la scienza, in particolare afferente alla disciplina della genetica delle popolazioni, ma anche a molti altri approcci metodologici, ha evidenziato essere inconsistenti.

Insomma, il razzismo è oramai smentito dalla stessa scienza sulla quale pretese per molto tempo e tutt’ora pretende, seppur sempre più isolatamente, di rinvenire fondamento.

Richard Lewontin fu il primo genetista a sconfessare senza approssimazioni e con certezza la narrazione dell’esistenza di differenti razze umane.

Resta emblematica la sua risposta ad una sollecitazione che lo interrogava circa il suo pensiero in ordine all’esistenza della razza, che fu la seguente: «Certo, le razze esistono», per poi aggiungere: «sono tutte quante qui», indicando la sua testa.

Lewontin, si riferiva, chiaramente, all’immaginazione che rappresenta l’unico “luogo” ove le superficiali differenze tra le diverse popolazioni umane vengono prese ancora sul serio.

Gli studi di genetica e la conoscenza del genoma umano, difatti, hanno posto in luce come le differenze tra gli esseri umani siano minime e spesso determinate dalle condizioni ambientali, mentre unioni e scambi di geni fra individui provenienti da aree geografiche in seguito a spostamenti e migrazioni delle popolazioni hanno definito le notevoli somiglianze del genere umano.

Ed allora, viene naturale chiedersi quale sia, dinanzi ad evidenze così lampanti la ragione per cui sopravviva tanto pericolosamente un simile pregiudizio?

In verità ad una tale interrogazione non può fornirsi una risposta oggettiva e tantomeno esaustiva.

Vi è, certamente, nell’uomo una particolare tendenza a classificare istintivamente qualcuno che non si conosce, come alleato o avversario.

A ben osservare quanto sopra evoca quello che avveniva tra i popoli primitivi, i quali tendevano a distinguere “i raccoglitori dai cacciatori”, condotta che illustri antropologi dell’importanza di Geertz o Levi-Strauss non mancarono di evidenziare. A dire il vero e prescindendo da ogni notazione di carattere scientifico, antropologico o storico-sociologico, a mio avviso, il razzismo denota una irrazionale paura di colui che appare od è diverso.

Molti personaggi di indubbie capacità intellettuali quali Linneo, J.F. Blumenbach, H.S Chamberlain, si sono in periodi storici diversi cimentati nel tentativo di fornire un fondamento plausibile alle più disparate tesi razziste, ma certamente quello maggiormente noto tra costoro fu l’aristocratico ambasciatore francese Joseph Arthur de Gobineau, il cui famoso “Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane” costituì uno dei testi guida del pensiero razzista.

Ebbene, ogni sforzo, a volte totalmente maldestro, altre volte pericolosamente strumentale, di trovare presupposti di valenza scientifica per giustificare diversificazioni “razziali”, mai provate e tantomeno necessarie, tra gli esseri umani è naufragato dinanzi alle evidenze scientifiche.

Sono convinto che non si possa che essere in accordo con le affermazioni della scienziata francese, già premio Nobel per la medicina, François Jacob la quale sostenne: «Ciò che la biologia può definitivamente affermare è che il meccanismo di trasmissione della vita è tale per cui ciascun individuo è unico, gli individui non possono essere gerarchizzati e la sola ricchezza è la collettività. Essa è fatta di diversità. Tutto il resto è ideologia».

Purtroppo, però, proprio l’approfondimento storico-antropologico delinea l’esistenza e la persistenza di fenomeni di discriminazione razziale sussistenti pressoché in ogni epoca storica ed ad ogni latitudine del pianeta.

Il XX secolo fu sventuratamente un periodo durante il quale furono emanate ed adottate leggi razziali in moltissime paesi del mondo quali, USA, Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna, Sudafrica, Svezia, Portogallo, Belgio, Canada e, purtroppo, anche Italia.

Le nefaste conseguenze di tali aberranti coacervi normativi sono tristemente note.

L’esigenza di parlare di tale tematica, di stigmatizzare con decisione e vigore i comportamenti che ad essa sottendono, ma soprattutto di combatterne ogni espressione è, dunque, sempre attuale ed indispensabile.

Il breve e necessariamente riassuntivo excursus che precede, pone in evidenza questioni che mi offrono l’abbrivio per alcune ulteriori meditazioni.

Non credo si possa dubitare che laddove si consideri possibile e giustificata una qualsivoglia visione o modalità comportamentale discriminatoria, nel senso sin qui inteso, si finisca per divenire inclini ad accogliere la possibilità stessa di discriminare tout court.

Ed una simile forma mentis cela pericoli di indiscutibile e rilevantissima entità.

In primo luogo, in danno delle persone che sono oggetto di tale pratica, le quali subiscono trattamenti spesso inumani o comunque profondamente ingiusti ed immotivati, le cui conseguenze ricadono non solo su di loro ma su interi nuclei sociali o, peggio ancora, su gruppi di persone che si connotano per diverse nazionalità, preferenze personali, posizioni politiche o religiose e così via.

Oltre a ciò, che è già di per se detestabile ed inaccettabile, chi discrimina danneggia innegabilmente pure se stesso, quandanche non lo percepisca.

La discriminazione, infatti, assume sempre la fisionomia di una patologia pervasiva, i cui esiti colpiscono l’intero contesto sociale in cui si diffonde.

La convinzione circa quanto precede mi deriva dalla considerazione relativa alla circostanza che, in verità, qualora si sia disposti ad approvare e promuovere una simile prassi, ci si pone nella condizione di ratificarla nel proprio modo di pensare giungendo a non porre più limiti circa ciò, chi e perché debba essere discriminato.

Ed allora, ogni pretesto può fungere da valido supporto pseudo-ideologico e da presunta giustificazione e fondamento per atteggiamenti di tal specie.

In buona sostanza, ogni ragione che denota una diversità rispetto a se stessi od al proprio circoscritto entourage, elevato a microcosmo perfetto, finito ed autosufficiente, assurge a valida ratio di pregiudizio discriminatorio, che non ammette riesame critico delle proprie posizioni ma che, viceversa, è autoreferenziale ed assiomatico.

Ebbene, è proprio in quanto testé evidenziato che, a mio modo di vedere, risiede la scelleratezza della condannabile pratica sin qui indagata.

Il pregiudizio, inteso esattamente come giudizio preventivo e preconcetto, privo di approfondimento, di contezza, di conoscenza e di consapevolezza, frutto di ignoranza e di paura verso ciò che non si conosce, costituisce l’humus nel quale può attecchire ed allignarsi la discriminazione nella sua accezione più negativa e radicale.

Trovo, a tal proposito, illuminante e di estrema attualità il pensiero del grande giurista, filosofo e politico Montesquieu il quale sostenne “Mi reputerei il più felice dei mortali se potessi far sì che gli uomini guarissero dei loro pregiudizi. Chiamo qui “pregiudizio” non ciò che porta ad ignorare alcune cose, ma ciò che porta ad ignorare se stessi”.

Naturalmente la storia anche recente e le condotte, amaramente ancora in fieri, hanno palesato e tutt’ora palesano come l’humus cui sopra ho fatto cenno, non di rado, sia artatamente alimentato al fine di perseguire interessi e disegni non casuali.

Circostanza e condizione cui, probabilmente, intese riferirsi Albert Einstein quando, argomentando sulla tematica in questione, ebbe a sostenere “Poche sono le persone che vedono con i loro occhi e pensano con la loro testa”.

La diversità, dunque, il pregiudizio e la paura che essa suscita sono i temi sui quali è indispensabile riflettere e dei quali è, altresì, essenziale e mai procrastinabile prendere atto, raccogliendo il monito di John Stuart Mill, secondo il quale “Gli uomini perdono rapidamente la capacità di concepire la diversità, se per qualche tempo si sono disabituati a vederla”.

Orbene, avviandomi a concludere queste mie riflessioni circa un argomento così rilevante e che merita estrema attenzione, credo di poter affermare, senza tema di smentita, che la discriminazione sia una grave patologia sociale alla quale dobbiamo porre rimedio mediante un costante modo di agire, che divenga una militanza contro una simile ed insensata forma di ignoranza e di paura.

Del resto già circa duemilacinquecento anni fa Confucio ebbe ad osservare che: “Tra le persone veramente colte non c’è discriminazione.”

L’auspicio, pertanto, è quello di vedere crescere la cultura nella sua accezione più ampia ed estensiva attraverso la quale, oltre a raccogliere e recepire l’enorme quantità di informazioni che nella nostra era ci vengono messe a disposizione, si possa, una buona volta, riuscire a comprendere che la diversità è una ricchezza e che la sua accettazione e comprensione diviene un arricchimento.

Affido la conclusione di questo lavoro ad un’esternazione, che mi ha molto colpito, che ancora oggi resta attuale e che funge sia da monito che da incitazione, la pronunciò il Dott. Martin Luther King, il quale constatò: “Abbiamo imparato a volare come gli uccelli, a nuotare come i pesci, ma non abbiamo imparato l’arte di vivere come fratelli”.

Rolando Grossi