Che fine farà il nostro calcio? Siamo preoccupati, preoccupatissimi, ma intanto non abbiamo potuto esimerci: tutti a condannare gli Azzurri, senza nessuna attenuante, senza nessun perdono.
Una vera e propria caccia alle streghe. E non solo in senso, puramente, metaforico ma anche in quello esoterico. Eh sì perché, questa volta la nostra disfatta è talmente inaspettata, clamorosa e surreale da lambire i confini dell’occulto. Ci sono parole, infatti, che di primo acchito potrebbero sembrare innocenti e innocue ma che se applicate ad un campo specifico diventano perfide e letali come un sortilegio.
Come una pozione magica. Come una stregoneria. Prendiamo, ad esempio, i punti cardinali: nord, sud, est, ovest. Indispensabili in mare dove non ci sono altri punti di riferimento se non bussole e stelle. Utilissimi, in terra, per identificare realtà talmente piccole, sconosciute ed insignificanti che sarebbero difficili da trovare anche per la versione aggiornata dell’infallibile google maps.
Fate attenzione, però, se uno di questi viene aggiunto ad altre parole tipo Italia, qualificazioni, mondiali, spareggi, sorteggi, ebbene, il risultato che ne scaturisce è una pericolosissima alchimia. 1954: Irlanda del Nord.1966: Corea del Nord. 2022: Macedonia del Nord. Se poi consideriamo che nel 2017, la partita decisiva per qualificarsi al Mondiale di Russia si giocò contro la Svezia, a Milano, proprio nella stessa città in cui Umberto Bossi e il professor Gianfranco Miglio fondarono, nel 1991, la Lega Nord, allora la quadratura del cerchio è completa.
Magari è proprio per questo motivo che la nostra Federazione con una decisione a sorpresa aveva deciso di giocare la partita di giovedì (vinta uno a zero dai Macedoni) all’estremo Sud dell’Italia, addirittura su un’isola che si affaccia sul continente africano: il profumo delle arance, la mite brezza marina, il caldo abbraccio primaverile di Palermo avrebbero dovuto esorcizzare l’incubo di affrontare una squadra “nordista”.
L’incantesimo non è servito.
Del resto il football nella sua centenaria storia di sorte e malasorte, pali e traverse, gol impossibili e rocamboleschi autogol, è pieno zeppo di episodi sovrannaturali, di sortilegi, di magia bianca e nera.
Addirittura atti di stregoneria vera o presunta. Nel suo meraviglioso ed ineguagliabile saggio Storie e miserie del calcio Eduardo Galeano dedica un divertentissimo capitolo alle cosiddette “forze occulte” che corteggiano e dominano, in modo spietato e crudele, il gioco più bello del mondo da quel lontano 1863, quando i presidenti delle dodici squadre più importanti d’Inghilterra si incontrarono alla Free Mason’s Tavern di Londra per scrivere, nero su bianco, le sue regole ufficiali. Non lo sapevano, ma in quel modo scatenarono, involontariamente, proprio queste entità misteriose e semi divine che, ogni fine settimana, fanno dannare milioni di tifosi in tutto il mondo.
Il grande Galeano ci racconta di come, fin dai primordi, la scaramanzia fosse già presente nei pensieri e nelle azioni dei calciatori sudamericani. Narra, infatti, che nel 1928, a Parigi, prima della finalissima olimpica tra Argentina e Uruguay, uno dei giocatori più rappresentativi della “Celeste”, Adhemar Canavesi, decise di compiere il sacrifico massimo per un professionista.
Rinunciare alla gara di una vita. Da titolare indiscusso, da sicuro protagonista. Pochi metri prima di arrivare allo stadio di Colombes scese dal pullman della squadra, salutò i compagni, e poi andò a prendere una birra fresca. Tutte le volte, infatti, che aveva affrontato gli odiatissimi cugini argentini aveva rimediato brutte sconfitte. L’ultima volta aveva, addirittura, commesso un clamoroso autogol.
Era davvero troppo, meglio farsi da parte. Inutile dire che senza Canavesi l’Uruguay vinse per 2 a 1 portandosi a casa la seconda vittoria consecutiva in una Olimpiade (la prima fu nel 1924 ad Amsterdam) convincendo così il grande Jules Rimet ad organizzare il primo campionato del Mondo, a Montevideo.
Proprio in questa città che è ambientato il secondo racconto di Galeano e, in questo caso, sfocia addirittura nel mito, o meglio in un mito, quello di Carlos Gardel, l’inventore del Tango.
Ebbene Gardel oltre ad essere uno scommettitore incallito di corse dei cavalli (a cui dedicò la famosissima Por una cabeza) e per cui perse ingenti fortune, era anche un grandissimo tifoso di football, quel nuovo sport importato dai marinai inglesi nel porto di Buenos Aires e le cui finte di gioco ben si sposavano con i passi di danza della sua musica lenta e sensuale: in fondo sempre di piedi e di ritmo si trattava.
Fu così che prima della mitica finale che assegnava la prima Coppa Rimet della storia (1930) e frapponeva, sempre, l’Argentina all’Uruguay volle fare una sorpresa alla delegazione “albiceleste”. Irruppe, senza preavviso, nel ritiro argentino alla vigilia della gara e per caricare la truppa ed ingraziarsi la fortuna cantò il suo pezzo più famoso Dandy.
Forse Gardel non sapeva che in fatto di musica la dea Fortuna aveva gusti differenti, tant’è che sotto di un gol al primo tempo l’Uruguay si scatenò nel secondo rifilando alla povera Argentina ben quattro reti.
Ma il fatto incredibile è un altro. Dopo cinquanta anni da quell’evento un dirigente argentino ormai novantenne in un’intervista ricordava di come Gardel cantò per l’Argentina la stessa canzone, anche prima della finale del 1928, pure quella persa con l’Uruguay. Solo una combinazione o qualcosa di più? È bene sottolineare che le pratiche occulte e cabalistiche legate al calcio venivano praticate anche nel vecchio Continente.
Un caso su tutti: Bela Guttman e il Benfica. Anni Sessanta. Guttman, ungherese di origine, era il classico allenatore giramondo: Brasile, Italia, Cipro, Svizzera, Uruguay, Austria, fino all’arrivo in Portogallo, la sua terra promessa, l’inizio della sua leggenda, prima nel Porto e poi nel Benfica, con cui vinse ben due coppe dei Campioni contro squadre allora considerate invincibili: Barcellona e Real Madrid dei suoi connazionali Kubala e Puskas.
Ma è proprio nel momento di maggiore gioia ed entusiasmo che la vita sportiva di Guttman prese una svolta. L’allenatore ungherese, come tutti i globetrotter di professione, era molto sensibile al denaro. Fu così che alla fine della partita vinta contro le “merengues” andò dai dirigenti del Benfica per reclamare il premio-partita concordato. Di tutta risposta la dirigenza gli chiese conto del terzo posto in campionato e negò, con tono sprezzante, anche l’esistenza di questo bonus nel suo contratto. Una disfatta per Guttman, una ingiustizia bella e buona.
Non poteva finire così. La sua vendetta fu terribile, biblica. Si racconta che in una sera di luna piena, lui o chi per lui, abbia seppellito un pollo in una zona del campo delle “aquile lusitane” lanciando al cielo un terribile anatema: il Benfica, per cento anni, non vincerà più una coppa europea. Detto e fatto. Da allora il Benfica ha giocato ben otto finali perdendole tutte, alcune di queste in modo, davvero, sovrannaturale. Tutti i tentativi per riparare lo sgarbo a Bela Guttman fallirono miseramente, l’ultimo dei quali erigere una statua in suo onore fuori dello stadio.
Come vedete, quando si parla di calcio, ad ogni latitudine o longitudine, non si può sottovalutare nessun aspetto, neanche quello più nascosto ed invisibile. Del resto lo sappiamo benissimo che attorno alla nostra Nazionale hanno sempre svolacchiato, come detto dal presidente federale Gravina, gufi e gufetti, corvi e cornacchie. A dire il vero, in quanto a buona sorte, specialmente, in panchina non eravamo messi male, anzi, avevamo un gran bel amuleto: Roberto Mancini. Da calciatore arrivò giovanissimo dal Bologna alla Sampdoria di Mantovani e vinse con il suo fedele scudiero Gianluca Vialli il primo scudetto della squadra blucerchiata. Poi, quasi a fine carriera passò alla Lazio, e dopo quasi trenta anni riportò il Tricolore sulla sponda biancoceleste del Tevere. I moltissimi successi, poi, come allenatore dell’Inter, del Manchester City e della Nazionale stessa, oltre all’indiscutibile bravura, certificano uno di quei rarissimi casi di uomini nati con la camicia.
Allora che è successo? È dalla vittoria a Wembley contro l’Inghilterra che la buona sorte sembra averci voltato le spalle. Da settembre a marzo tra occasioni mancate incredibilmente, rigori sbagliati all’ultimo secondo e tiri della domenica che diventano imparabili, sembriamo vittima di una malvagia fattucchiera. Una fattucchiera di cui abbiamo, forse, scatenato la terribile ira prendendole qualcosa di molto prezioso. Per esempio una bellissima e splendente Coppa d’argento alta 66 centimetri…
La cosa peggiore è che lo abbiamo fatto, proprio, in casa sua, in mondo visione e di fronte a 90.000 suoi connazionali, ammutoliti prima e sfottuti poi. Vi ricordate la famosissima foto del nostro capitano Giorgio Chiellini e di Leonardo Bonucci che davanti ad un abbondante piatto di spaghetti cantavano e ridacchiavano senza pietà: Cari inglesi ne dovete ancora mangiare di pasta!!!???
Una scenetta, davvero, divertente ma, forse, troppo pesante da digerire per il freddo e austero humor inglese. Ecco perché non vorremmo sbagliarci né offendere nessuno, in particolare i sudditi di sua Maestà. Quella fattucchiera così rancorosa e vendicativa potrebbe avere le fattezze della regina Elisabetta che fra sé e sé canticchia al pari di Bela Guttman: «Cari Italiani, ricordate, chi di spaghetti colpisce…di Macedonia perisce». E così addio Mondiali, speriamo almeno di non dovere aspettare cento anni.
Sabrina Trombetti